11 gennaio 2024
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Biografia di Serge Latouche nato a Vannes
Serge Latouche nato a Vannes, in Bretagna, il 12 gennaio 1940 (84 anni). Economista. Filosofo. Professore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi Sud. Filosofo della decrescita.
Titoli di testa «Nel Laos non esiste un’economia capitalistica, all’insegna della crescita, eppure la gente vive serena».
Vita «Mio padre era avvocato e mia madre si occupava dei cinque figli. Da giovane era stata insegnante di matematica» [ad Antonio Gnoli, Rep] • «Fino alla tarda adolescenza ho sognato di fare l’archeologo e non l’ho fatto. Non pensavo affatto alla cattedra. Una familiarità precoce con l’egittologia mi ha attratto verso questa professione che sembrava inaccessibile e dalla quale mia madre cercava di tenermi lontano» [Serge Latouche, Penser à un nouveau monde] • Primo lavoro nel luglio del 1958 in prefettura. Un mese all’ufficio passaporti, per «permettermi di comprare un motorino usato». Secondo lavoro nell’ottobre dello stesso anno. Sempre un mese, ma questa volta alle Poste. «Due esperienze pessime. Allora mi sono messo a cercare una professione che mi mettesse al riparo da orari e capi tiranni, come quella di mio padre avvocato, che alla perorazione preferiva la musica e il cinema. La cosa che mi attraeva di più dell’insegnamento era il fatto di aver diritto a lunghe vacanze, di aver massima libertà nell’esecuzione del mio compito con una dipendenza gerarchica minima» [ibid.] • «Ho fatto una sostituzione per un mese in un istituto tecnico in una classe di somari indisciplinati. Bisognava stare molto attenti a non punirli perché poi sarei stato costretto a ore supplementari di supervisione... Cercavo di rendere l’economia attraente ma capii ben presto che per non essere divorati da questi piccoli mostri dovevo impormi e mantenere la disciplina. Le 18 ore regolamentari alla settimana, che potrebbero sembrare un privilegio, mi sfinivano tanto quanto le 40 ore all’ufficio postale» • «Latouche ha avuto almeno due vite. La prima, scaturita dagli studi e dal concorso per insegnare Economia a Lille, si è interrotta quando Latouche ha cominciato a viaggiare per le sue ricerche nei Paesi del Sud del mondo. “Negli anni Sessanta sono stato in Congo e poi nel Laos per attuare programmi di sviluppo economico. È così che è incominciata la mia riflessione critica su questo modello di crescita continua. Pensavo di essere al servizio di una scienza, in realtà si trattava di una religione. Ho capito allora che gli economisti come me non sono altro che dei missionari che vogliono convertire e distruggere popoli abituati a vivere in maniera diversa”. Latouche si convince che tutte le ricette promosse dall’Occidente per contrastare la povertà servono in realtà a distruggere la ricchezza locale, destrutturando le società. È così che comincia la nuova vita da economista pentito. Anche se continua a insegnare a Lille, comincia a entrare nella corrente di pensiero di alcuni economisti dissidenti, seguendo in particolare i lavori del francese François Partant, pensatore del post-sviluppo. […] “All’inizio ero concentrato sulla critica dell’imperialismo occidentale, della ‘deculturazione’”. Latouche piano piano riflette anche sui limiti naturali, l’ambientalismo entra a far parte dei suoi studi. “È ormai riconosciuto che il perseguimento indefinito della crescita è incompatibile con un pianeta finito. Se non vi sarà un’inversione di rotta, ci attende una catastrofe ecologica e umana. Siamo ancora in tempo per immaginare, serenamente, un sistema basato su un’altra logica”. Il punto di rottura per Latouche è piuttosto culturale, filosofico. […] “In Occidente pochi hanno avuto il coraggio di parlare di decrescita fino al 1989, dopo il crollo del Muro. Quando siamo entrati in un mondo globale, senza più differenze tra primo, secondo o terzo mondo, lentamente c’è stata una presa di coscienza. Oggi non si tratta di trovare un nuovo modello economico, ma di uscire dal governo dell’economia per riscoprire i valori sociali e dare la priorità alla politica”. Per cambiare bisogna seguire quelle che Latouche chiama le otto “R”. Ovvero “rivalutare”, “riconcettualizzare”, “ristrutturare”, “ridistribuire”, “rilocalizzare”, “ridurre”, “riutilizzare”, “riciclare”. […] Secondo Latouche le otto “R” rappresentano cambiamenti interdipendenti, che insieme possono far nascere una nuova società ecologica. “Una società di cittadini, e non più solo di semplici consumatori”» [Anaïs Ginori, Rep]. Tra i suoi ultimi libri: Breve storia della decrescita. Origine, obiettivi, malintesi e futuro (2021), L’abbondanza frugale come arte di vivere. Felicità, gastronomia e decrescita (2022), Lavorare meno, lavorare diversamente o non lavorare affatto (2023)
tutti pubblicati in Italia da Bollati Boringhieri • Noto ai più come il massimo teorico della «decrescita felice», contesta la definizione: «Decrescita serena, per cortesia: la felicità è una cosa che dipende dalla personalità dei singoli, è qualcosa che si avverte nella società, ma riflette una dimensione umana; la serenità è il minimo di sostenibilità a condizioni oggettive, è qualcosa che genera un minimo di benessere per tutti» [a Roberto Napoletano] • «Il pensiero di Latouche riveste la forma di una critica radicale allo sviluppo, alla società dell’iperconsumo e alla crescita economica infinita, la quale non tiene conto di dati oggettivi e oggi più che mai emergenti: la finitezza della biosfera e delle risorse naturali, e l’importanza del rispetto dell’ambiente. Solo l’innovazione politica e l’autonomia dell’economia fondante su un ritorno al locale come spazio di auto-organizzazione e di democrazia ecologica consente reali condizioni di benessere. La proposta della “Decrescita” valorizza il necessario cambiamento degli stili di vita, tanto più ora necessario di fronte a una forte crisi ambientale, climatica e finanziaria.
“Siamo ancora in tempo per immaginare una “società di decrescita”: ridurre il saccheggio della biosfera non può che condurci ad un migliore modo di vivere - scrive Latouche - Il progetto di decrescita non vuole dire “riportare la società al Medioevo”, è una critica moderna della modernità, per liberarsi dalla dittatura dei mercati finanziari e della tecnoscienza. Il progetto politico della decrescita è recuperare la nostra autonomia, riaprire la storia umana per ridare all’uomo la possibilità di scegliere il suo futuro e di scegliere un futuro sostenibile.” La decrescita si accompagna, nel pensiero di Latouche, all’aggettivo “serena”: si tratta infatti di una scelta che porta gioia all’uomo, e non sacrificio e sofferenza: “invertire la corsa ai consumi è la cosa più allegra che ci sia”, sostiene Latouche» [CasaArtusi] • «Il progetto economico capitalista è nato nel Medioevo, ma la sua forza è esplosa con la rivoluzione industriale e la capacità di fare denaro con il denaro. Eppure lo stesso Aristotele aveva capito che così si sarebbe distrutta la società. Ci sono voluti secoli per cancellare la società pre economica, ci vorranno secoli per tornare indietro» • Eppure ai vertici della politica gli economisti sono molti. «E infatti hanno una visione molto corta della realtà. Mario Monti, per esempio, non mi è piaciuto; Enrico Letta, invece, sì: ha una visione più aperta, è pronto allo scambio. Io mi sono allontanato dalla politica politicante, anche perché il progetto della decrescita non è politico, ma sociale» [a Giuliano Balestreri, Rep] • « Siamo tossicodipendenti da crescita. Il nostro è un sistema basato sulla droga. Colonizzano il nostro immaginario, ci inculcano che più consumi più sei felice. Sembra così che la frugalità sia incompatibile con la gioia. Ma la gente sa che non è vero. C’è un passaggio bellissimo degli Scritti corsari che dice tutto: Pasolini, cito Piero Bevilacqua, è “precursore della decrescita”. “Una volta – scrive Pasolini – il fornarino o il cassierino come lo chiamano a Roma era eternamente allegro (…), giungeva alla casa del ricco con un sorriso naturale e anarchico (…). Non è la felicità che conta, non è per la felicità che si fa la rivoluzione, ma la condizione contadina e sottoproletaria sapeva esprimere una certa felicità reale. Oggi questa felicità, con lo sviluppo, è andata perduta”. La felicità è il nostro stato primordiale. Con questo sistema produttivista e consumista abbiamo distrutto il senso della vita e minato la convivialità. Per la felicità sono più importanti le relazioni sociali che il consumo» [a Maddalena Oliva, Fatto] • La New Economics Foundation, che lei cita, costruisce un indice di felicità che ribalta l’ordine classico del Pil e l’indice di sviluppo. L’ultima classifica? «In testa, Costa Rica, Messico e Colombia. Un podio un po’ discutibile se si pensa alla violenza in questi Paesi. All’ultimo posto, peggio di noi, gli Stati Uniti». La pandemia ci ha sfidato a rivedere le fondamenta del nostro sistema… «Durante il lockdown si sono rivisti i delfini nel Canal Grande, son tornati gli uccellini sugli alberi di fronte a casa, l’aria era più pulita… Ma è stata una parentesi. Il Covid ha permesso ai governi un controllo più forte della società, anche con forme di videosorveglianza come in Cina: un nuovo modello di tecno-eco-totalitarismo. Ci stiamo orientando sempre più verso società in cui la gestione della scarsità, della fine dell’abbondanza della natura è demandata a tecnocrazie che hanno, come unico obiettivo, il mantenimento del livello di vita delle classi dirigenti. Siamo già qui. Lontani dalla democrazia» [ibid.].
Frasi «La globalizzazione è mercificazione» • «Il libero scambio è come la libera volpe nel libero pollaio» • «L’Expo è la vittoria delle multinazionali, non certo dei produttori» • «Considerare il Pil non ha molto senso: è funzionale solo a logica capitalista, l’ossessione della misura fa parte dell’economicizzazione. Il nostro obiettivo deve essere vivere bene, non meglio» • «Lo sviluppo sostenibile è come la via per l’inferno, lastricata di buone intenzioni» • «Noi non distruggiamo il pianeta, ma soltanto il nostro ecosistema, cioè le nostre possibilità di sopravvivervi» • «La pubblicità è un mezzo studiato per rendervi scontenti di ciò che avete e farvi desiderare ciò che non avete» • «La vera povertà consiste nella perdita dell’autonomia e nella tossicodipendenza da consumismo»
Curiosità Pratica quella che il suo maestro Ivan Illich chiamava «la sobria ebbrezza della vita»: usa il più possibile il treno (fino a qualche anno fa, la bicicletta), non possiede un televisore, un cellulare e si avvale del computer solo quando strettamente necessario, per «resistere alla tecno-dipendenza». Inoltre, cerca di usare ogni cosa «sino alla consunzione totale. Piuttosto che buttare, riparo, anche se oggigiorno costa meno comprare un oggetto nuovo fabbricato in Cina. Ma preferisco appunto allungare la vita delle cose, o riciclare, combattendo così la filosofia dell’usa-e-getta, l’obsolescenza programmata dei beni» • «Vivo in tre posti: il primo è Parigi, il secondo è l’Italia tutta itinerante dall’Alto Adige a Lampedusa, poi i Pirenei del Sud, dal lato della Catalogna, dove scrivo i miei libri. Quando sono a Parigi, ogni domenica faccio visita al Louvre».
Amori Una figlia dal primo matrimonio, Florence, e due dal secondo, Gwendal e Morgane («Sono nomi bretoni»)
Titoli di coda «Dobbiamo decolonizzare la nostra mente dall’invenzione dell’economia».