12 gennaio 2024
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Biografia di Jay McInerney (John Barrett McInerney Jr.)
Jay McInerney (John Barrett McInerney Jr.), nato a Hartford (Connecticut, Stati Uniti) il 13 gennaio 1955 (69 anni). Scrittore. Grande notorietà ottenuta con il romanzo Le mille luci di New York (Bright Lights, Big City, 1984), ritratto di una generazione edonista e priva di valori, poi diventato un film con Michael J. Fox • «Lo scrittore delle discoteche di Manhattan, delle malefatte degli squali di Wall Street, delle conversazioni scintillanti ai party dell’Upper West Side» (Matteo Persivale, Lettura 31/7/2016) • «Il piccolo Gatsby» (Riccardo Staglianò, venerdì 26/8/2016) • «Uno dei grandi interpreti degli eccessi e dell’avidità degli anni 80» (Alessandra Farkas, CdS 13/3/2009) • «In cima a uno scaffale, tiene una cinquantina di coppe da champagne, la bevanda che ha fatto diventare di moda negli Anni ‘80 in sostituzione dei superalcolici […]. Quando ne parla mi fa venire in mente Hemingway, convinto che lo champagne non contenesse alcol, perché, diceva, nello champagne ci sono le bollicine e dunque non può essere alcol. Così i frigoriferi di Hemingway erano pieni di bottiglie di champagne […]. Jay, […] lo scrittore più rappresentativo dell’ultima generazione americana, si può considerare il vero continuatore di Hemingway, per ben altro che queste bizzarre interpretazioni dello champagne» (Fernanda Pivano, CdS 19/8/2001) • Dopo il grande successo del primo libro, ha dato alle stampe, tra le altre cose, Si spengono le luci (Brightness falls, 1992), Good life (The Good Life, 2006) e La luce dei giorni (Bright, Precious Days, 2016), editi in Italia da Bompiani. Quando gli si chiede come mai nei suoi titoli continui a inserire il concetto di luminosità (brightness), risponde: «Forse perché tutti i miei personaggi cercano la luce: sono attratti da Manhattan come le falene dalla fiamma».
Titoli di testa «McInerney è in ritardo. “Ero dal dentista” dice, anche se pare essere uscito dal sequel della Febbre del sabato sera: occhiali specchiati a goccia, pettinatura alla Tony Manero, fisico fermo e asciutto, pantaloni coloniali, mocassini turchesi, beverone di caffè ghiacciato nella mano sinistra e cellulare all’orecchio nell’altra. “Finisco la telefonata, intanto saliamo”, sussurra mimando» (Antonello Guerrera, Rep 20/8/2017).
Vita Figlio di una coppia di irlandesi cattolici. Laurea in filosofia al Williams College di Williamstown nel 1976. Per qualche anno lavora in provincia come giornalista e insegnante di inglese. Poi, nel 1979, conosce la modella Linda Rossiter e assieme decidono di trasferirsi a New York • È l’inizio degli anni Ottanta e Jay subito si innamora della città. «Venivamo dal leggendario blackout del ’76 e dalla bancarotta sfiorata del ‘77. Sentivamo di essere a un bivio: sprofondare o salvarsi, cinquanta e cinquanta. Non c’era amico o conoscente che non fosse stato almeno rapinato, la città era sporca e pericolosa. Washington Square, qui a due passi, era un supermercato della droga. Però, in quartieri vicini come l’East Village, la classe creativa riusciva a campare con poco. Era il tempo migliore e peggiore per vivere a Manhattan» • Nel 1980 Jay e Linda si sposano. Lui viene assunto come verificatore di notizie al New Yorker. Ma le cose non vanno per il verso giusto. Nell’arco di pochi mesi, perde sia il lavoro sia la moglie (innamoratasi di un fotografo durante un viaggio in Italia). E, come se non bastasse, «anche la polvere bianca scarseggiava» (Staglianò) • Per sua fortuna un suo compagno di università, da poco assunto alla Random House, riesce a presentagli lo scrittore Raymond Carver. È la svolta della sua vita. «Carver veniva a New York per un reading alla Columbia, venni invitato a un pranzo con lui e il suo editor Gordon Lish. Nel pomeriggio, visto che gli altri dovevano tornare a lavorare, io e lui rimanemmo da soli. Allora lo portai a casa mia […] Avevo della cocaina in casa, volevo farmi, ero davvero fuori di testa in quel periodo. Così la offrii a Carver […] È stato fantastico, gli piacque un casino. Chiacchierammo senza sosta, per ore. Poi lo accompagnai alla Columbia per la sua lezione, parlava così veloce che molti studenti non capirono niente. Che spasso!» (Guerrera). Al celebre scrittore quel giovane spiantato risulta simpatico. Gli consiglia di andare a seguire i suoi corsi di scrittura creativa a Syracuse. Gli procura anche una borsa di studio. «Ero davvero scoppiato in quel periodo, troppa droga, non ero produttivo. Carver è stato di grande ispirazione per me». Cosa le ha insegnato? «Innanzitutto la scelta attenta delle parole e la loro economia. In Europa pensate che il dono della scrittura non si possa insegnare. Invece sì. Soprattutto, si può insegnare cosa non fare, i principi dello storytelling: non spiegare, ma mostrare. Poi mi ha trasmesso un altro segreto: scrivere ogni giorno, sempre e comunque, anche se non se ne ha voglia, anche se non si sente l’ispirazione […] Scrivere, in effetti, è come suonare il piano: quel che occorre è pratica, pratica e ancora pratica» (Guerrera) • Il tirocinio da Craver è utilissimo, per Jay. Tempo quattro anni e il il giovane può finalmente pubblicare il suo primo libro: Le mille luci di New York. «Romanzo geniale, emblema di una generazione, capostipite di uno stile nuovo. Le mille luci proiettarono nell’immaginario collettivo Jay McInerney e la Manhattan alla cocaina degli anni Ottanta, dove anche uno sfigato intellettuale di provincia inseguiva sniffando soldi, successo e modelle, segnando per sempre un’epoca e un genere letterario» (Gianemilio Mazzoleni). «Non tutta la critica apprezzò la parabola del giovane fact checker lasciato dalla moglie, in perenne apnea psichedelica nella vita notturna cittadina (vi ricorda qualcuno?). Il premio Pulitzer George Will lo definì “uno spot della birra Michelob reinventato come letteratura” mentre Sam Shepard […] sentenziò che era “profondo come una vasca Jacuzzi”. Vendette comunque mezzo milione di copie, divenne l’epitome di una generazione e di colpo McInerney fu scaraventato dall’appartamento da 250 dollari al mese di Syracuse alle stanze da 250 dollari a notte dello Chateau Marmont di Los Angeles, reclutato da Hollywood per adattare dal testo una sceneggiatura» (Staglianò). «McInerney viene associato a un gruppo di giovani scrittori americani che in quegli anni pubblicano libri algidi, in cui restituiscono la vita effimera di una generazione che sguazza nel vuoto: a parte droga e sesso sembrano attratti solo dai soldi. Tra questi scrittori cosiddetti minimalisti ci sono Bret Easton Ellis, David Leavitt, Susan Minot, Tama Janowitz, Michael Chabon (i critici fanno risalire quell’asciuttezza al più anziano Raymond Carver). Nel 1986 chiedono a Leavitt se si sente di appartenere a quella generazione letteraria e lui risponde: “Per niente. Anzi la cosa mi disturba, perché insieme al mio si fanno nomi di scrittori che non mi piacciono. Raymond Carver ha ridotto quasi al silenzio la narrativa. Bright Lights, Big City di Jay McInerney non è un buon libro”. […] Ma il colosso che fa ombra a McInerney è Bret Easton Ellis, un gigante che deforma la prospettiva di quel gruppo. Posti al suo fianco gli altri diventano minuscoli e insignificanti. Meno di zero (1985) di Ellis è il libro che tutti loro avrebbero voluto scrivere (il tipo di complesso che ricorda il momento in cui Italo Calvino ammise che Beppe Fenoglio con Una questione privata “riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato”). Le mille luci di New York […] è scritto in seconda persona, ecco l’incipit: “Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest’ora del mattino. E invece eccoti qua, e non puoi certo dire che il terreno ti sia del tutto sconosciuto, anche se i particolari sono confusi. Sei in un nightclub e stai parlando con una ragazza rapata a zero”. Alberto Arbasino ironizzò sulla “novità” di questa seconda persona: era scritto “come Il Giorno di Giuseppe Parini, che però a un gusto yuppie rischia d’apparire oggi un po’ troppo punk”» (Longo).
Amori Quattro mogli (due modelle, una scrittrice e un’ereditiera, l’attuale consorte Anne Hearst, nipote di William Randolph Hearst, il magnate dell’editoria che ispirò a Orson Welles il protagonista di Quarto potere), due figli gemelli dalla terza • «Sono romantico. Per quanto mi riguarda, è meglio farsi beccare a letto con l’amante che con la puttana».
Figli Due, avuti con l’inseminazione artificiale. «Io non li volevo ma Helen (Bransford, la terza moglie, ndr) pensava di tenermi legato a lei in questo modo. Che illusa!».
Politica Democratico. Già convinto elettore di Barack Obama e Hillary Clinton. Grande antipatia per Donald Trump: «Conosco molte persone nel settore immobiliare e tutti mi dicono che di lui non ci si può fidare».
Vizi Ha chiuso con la droga. «È stato un amore complicato: la droga mi parlava e io ricambiavo nei momenti di depressione».
CuriositàVive in un attico vetrato da oltre 3 milioni di dollari nel quartiere bohémien di Greenwich Village. Edward Norton abita al piano di sotto. Nei grattacieli della zona hanno casa anche Mario Batali, Richard Gere, Sam Shepard e Jessica Lange • Detesta Brooklyn e i sobborghi. «Sono posti dove si va a nascondersi, non a vivere» • Libro preferito: Il Grande Gatsby. «È l’opera che definisce il carattere e la psiche degli Stati Uniti. È la Stele di Rosetta del sogno americano • Serie preferite: The Sopranos, Breaking Bad e House of Cards • «Quanto ai film, non mi viene in mente niente di strepitoso negli ultimi tempi» • Con riluttanza, ha iniziato a usare i social • Il suo quarto banchetto di nozze è stato ammannito al 21 Club, a due passi dal Moma • Delle sue mogli, dice: «New York è il luogo con più tentazioni al mondo, con così tante persone belle e ambiziose per strada e un anonimato che facilita le tresche. Aggiungete che l’unica religione cittadina è di scambiare costantemente quel che si ha per qualcosa di meglio. Su un piatto dunque la sicurezza domestica, sull’altro la passione (o il suo ricordo), difficile da addomesticare. Il risultato è che la coppia è un’entità intrinsecamente instabile» • Dei suoi figli: «Sono stato un padre riluttante, ma ora ho un rapporto splendido con loro e sono felice» • Tiene una rubrica sul vino sul Wall Street Journal («È come essere pagato per uscire con le modelle») • Ha scritto tre saggi sull’arte dell’enologia • Nell’ultimo romanzo il protagonista, Russel, per fare colpo su una signora invitata a cenare fuori, ordina il «vino perfetto per accompagnare un hamburger» • L’american way of life non è ormai fuori moda? «È un grande esperimento sociale che continua ad attrarre su questi lidi carovane di europei inquieti, desiderosi di reinventare il mondo e se stessi. In America l’identità non è un valore fisso e la tua sorte non è determinata dal pedigree dei tuoi nonni e genitori. Noi crediamo che basta cambiare città e nome per rinascere in un’altra pelle, proprio come il Grande Gatsby» (Farkas) • «Il romanzo in America non morirà mai proprio perché fondato sul concetto di self-invention, auto-creazione del personaggio che in Europa, ahimè, è rigido e fisso: prigioniero della storia» (ibid.) • Sottoscrive la massima hemingwayana per cui la peggior sfiga che ti può accadere, a patto che non ti uccida, è la miglior cosa che ti può capitare come scrittore.
Titoli di coda «Tra tutti i romanzi e le interviste, la frase più commovente di McInerney, e che meglio sintetizza la sua vita, l’ha pronunciata pochi giorni prima del Natale 2012. “Che regalo vorrebbe ricevere per Natale?”, gli chiese Laura Piccinini di Repubblica. Lui rispose: “Vorrei che il mio amico Bret Easton Ellis ritornasse a vivere a New York. Se lo facesse, darei un party memorabile”» (Longo).