13 gennaio 2024
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Biografia di Steven Soderbergh (Steven Andrew Soderbergh)
Steven Soderbergh (Steven Andrew Soderbergh), nato ad Atlanta (Georgia, Stati Uniti) il 14 gennaio 1963 (61 anni). Regista. Sceneggiatore. Montatore. Produttore. Tra i principali riconoscimenti conseguiti, una Palma d’oro (1989, per Sesso, bugie e videotape) e un premio Oscar al miglior regista (2001, per Traffic). «Sono convinto che ogni film annulla quello precedente. Si riparte sempre da zero» (a Silvia Bizio) • Di ascendenze svedesi, irlandesi e italiane, Soderbergh crebbe tra Charlottesville (Virginia) e Baton Rouge (Louisiana), sviluppando ben presto una grande passione per il cinema. «Steven Soderbergh ha iniziato a girare i suoi primi film a tredici anni. Una vocazione precocissima che suo padre incoraggiò iscrivendolo a un corso di cinema d’animazione, che però il regista in erba abbandonò quasi subito per passare alla “fiction”. Successivamente il giovane Steven scoprirà la sua vera passione: i videotape. Ma allo stesso tempo è autore di sceneggiature, si occupa di montaggio e di realizzazione di filmati pubblicitari. A lanciarlo nel mondo del cinema fu però un video da lui realizzato nell’86 sul gruppo rock degli Yes, che gli fece guadagnare la menzione al Grammy per il miglior “clip”» (Giuseppina Manin). «Ci racconta come è nato il film sul concerto degli Yes? “Facevo dei lavoretti per la stazione via cavo Showtime e qualcuno ha suggerito il mio nome agli Yes, che volevano un documentario su di loro ‘on the road’. Mi sono detto: perché no? Tanto non li avrei mai più rivisti. Ho messo insieme un film di 30 minuti molto buffo sulla vita ‘on the road’ del gruppo. A loro è piaciuto molto. E mi hanno quindi chiesto di fare un ‘concert film’ per loro. Avevo 22 anni: allora mi andava bene tutto, pur di lavorare. Fu allora che mi presi un agente”» (Bizio). «Sulla scia di questo successo Soderbergh venne contattato da un’importante casa di produzione americana, che decise di scommettere su di lui affidandogli la produzione di Sex, Lies and Videotape, di cui Soderbergh firma anche la sceneggiatura, che però – come ha raccontato lui stesso – è stata elaborata insieme agli attori del film» (Manin). «Il film […] dopo il suo debutto al Festival di Sundance nel 1989 vinse la Palma d’oro a Cannes. Soderbergh aveva allora 26 anni, e il successo fenomenale di quel film (per la cui sceneggiatura ottenne anche una candidatura all’Oscar) segnò un nuovo corso per il cinema indipendente e l’inizio dell’èra di Sundance, in cui giovani cineasti alle prime armi possono diventare celebrità all’istante» (Bizio). Il film «racconta in maniera eccentrica la crisi della famiglia americana, ottenendo […] un notevole riscontro critico anche grazie alle riflessioni metalinguistiche di cui è disseminato» (Gianni Canova). Seguì un «periodo oscuro, quando tutti aspettavano la conferma del suo genio. Ma i suoi film Kafka (1991), thriller esistenziale in bianco e nero, King of the Hill (1993) e The Underneath (1995) non vennero accolti con favore. E in breve tutti sembrarono scordare il suo nome. Così Soderbergh lasciò Hollywood e ritornò a Baton Rouge, in Louisiana, dove è cresciuto, girando con piccole troupe pellicole minori come Schizopolis e Gray’s Anatomy. “Mi sono impegnato a realizzare piccoli film per imparare il mestiere. Ho preso tempo: è stato un apprendistato molto utile”» (Tiziana Mantovani). «Il suo nome torna alla ribalta solo nel 1998 grazie alla commedia d’azione Out of Sight. Dopo L’inglese (1999), un noir che tenta con troppa insistenza la strada della scomposizione narrativa, nel 2000 dirige Erin Brockovich – Forte come la verità, con una spumeggiante J. Roberts nei panni di una caparbia segretaria in lotta contro una potente società che ha avvelenato l’acqua di un’intera contea, e Traffic, opera corale che fonde abilmente il cinema d’impegno e il prodotto commerciale. Per questi due film (primo nella storia [in realtà preceduto da Michael Curtiz, che nel 1939 fu candidato al premio Oscar al miglior regista sia per Gli angeli con la faccia sporca sia per Quattro figlie – ndr]) ottiene una doppia nomination al premio Oscar 2001 come migliore regista (vincendo poi la statuetta con Traffic)» (Canova). «Vedendoli, è chiaro che uno (Erin Brockovich) è figlio dei voleri degli studios hollywoodiani, l’altro (Traffic) della sua fantasia autoriale» (Gabriele Romagnoli). «Regista sempre in bilico fra cinema di cassetta e sperimentazione visiva, sul primo versante dirige anche la patinata trilogia Ocean’s Eleven (2001), Ocean’s Twelve (2004) e Ocean’s Thirteen (2007); sul versante della sperimentazione, invece, figurano Full Frontal (2002), film a basso budget girato in parte in digitale, Solaris (2002), remake dell’omonimo film del 1972 di A. Tarkovskij, Equilibrium (2004), segmento del film collettivo Eros (gli altri due episodi sono di M. Antonioni e Wong Kar-wai), Bubble (2005), vicenda minimalista di cui S. cura regia, fotografia e montaggio: il film è realizzato con un budget ridottissimo e, per la prima volta negli Stati Uniti, viene distribuito contemporaneamente in sala, in home video e sulla pay tv. Intrigo a Berlino (2006) è invece un’anomala operazione vintage, dal momento che il film, noir postbellico ambientato nel 1945 a Berlino, è girato in ottemperanza filologica allo stile registico e recitativo e alle disponibilità tecniche (tipologia di macchine da presa, illuminazione) della cinematografia dell’epoca. Due anni dopo dirige B. Del Toro in Che, film biografico su Ernesto “Che” Guevara» (Canova). Seguirono, tra gli altri, The Girlfriend Experience (2009), Contagion (2011), Magic Mike (2012), Effetti collaterali (2013), La truffa dei Logan (2017), Panama Papers (2019), Lasciali parlare (2020), Kimi – Qualcuno in ascolto (2022) e Magic Mike – The Last Dance (2023). «Al cinema Soderbergh ha diretto oltre 30 film, ma la sua creatività ha trovato sfogo anche nel comparto televisivo. Nel 2013 dirige Michael Douglas nel biopic per la tv Dietro i candelabri sulla vita di Liberace, mentre nel 2014 crea l’ottima serie tv (durata solo due stagioni) The Knick. Nel 2017 il regista crea e sviluppa il videogioco Mosaic, che diventa anche una miniserie distribuita da Hbo» (Eva Cabras). Quest’ultimo divenne persino un’applicazione interattiva per cellulari. «“Da anni ragionavo sulla possibilità di seguire percorsi diversi per raccontare storie. Usare quella che io chiamo narrativa ramificata: dare allo spettatore la possibilità di seguire la storia da punti d’osservazione diversi. Ma mi pareva troppo complicato, inelegante. E non avevamo una buona tecnologia interattiva. Poi nel 2012 un produttore mi ha proposto un approccio diverso e nel frattempo la tecnologia è maturata: ci siamo lanciati nel progetto di Mosaic. Abbiamo dovuto rivoluzionare il nostro modo di lavorare, ma ne è valsa la pena: ora abbiamo un modo nuovo di fare storytelling”. […] “Abbiamo dovuto raccontare e filmare Mosaic più volte dal punto di vista dei vari protagonisti, stando bene attenti a rispettare in ogni versione la concatenazione temporale dei fatti: cambiano i punti di vista soggettivi, ma i fatti restano gli stessi. Abbiamo riempito intere pareti di un loft di Chelsea di foglietti con la scansione degli eventi, riportandole poi nelle varie storie filmate. Ogni sequenza girata più volte. La sceneggiatura è venuta dopo: oltre 500 pagine. Un gran lavoro”. […] Ne è valsa la pena? […] “L’homo sapiens è una specie che apprende e comunica attraverso le storie. Quando mi hanno detto che dovevo proporle anche sul piccolo schermo dello smartphone mi sono chiesto se, anziché lamentarmi perché questo degradava il mio lavoro, non ci fosse il modo di utilizzare il pieno potenziale del nuovo strumento. Abbiamo imboccato questa strada e funziona: l’interattività stimola gli spettatori, li fa sentire parte della storia. Che, però, sviluppiamo anche in modo tradizionale per il pubblico televisivo: sei ore divise in sei puntate”» (Massimo Gaggi). Nel corso del 2020, alla luce della pandemia da Covid-19, acquisì nuova popolarità, nove anni dopo la sua uscita nelle sale cinematografiche, Contagion, «con cui aveva praticamente previsto l’emergenza virus. Come siete riusciti a essere così precisi con quel film? “Quando lo sceneggiatore Scott Burns mi ha proposto il film, ci siamo detti: lo facciamo solo accurato e basato sui fatti. Il professor Lipkin ha accettato di farci da consulente a patto che la storia non fosse su teorie sceme e cospirazioni su virus creati in laboratorio. Sapevamo che sarebbe successo dieci anni dopo? No, ma ogni esperto con cui parlavamo diceva che non era questione di ‘se’, ma di ‘quando’”» (Bizio). «Però lo sceneggiatore, Scott Burns, e io non avremmo mai immaginato la portata polemica e lo scontro politico sviluppati attorno a questo evento di salute pubblica. Il personaggio di Jude Law in quel film (un blogger complottista, ndr) doveva essere una singola nota nella melodia. Io e Scott non pensavamo che sarebbe diventato l’accordo principale. È stato un fallimento della nostra immaginazione» (a Luca Celada). Anche grazie a questa esperienza, il regista fu incaricato della produzione della cerimonia degli Oscar dell’aprile 2021, affinché organizzasse la serata in modo da ridurre al minimo i rischi di contagio. Anche negli ultimi tempi, pur avendo diretto due nuove serie, Full Circle per la piattaforma digitale Max e Command Z per il sito della sua casa di produzione Extension 765, non ha mai smesso di dedicarsi al cinema: la sua nuova pellicola, Presence, dovrebbe essere presentata al Sundance Film Festival il prossimo 19 gennaio • «Passando dal cinema al settore imprenditoriale, Steven Soderbergh si è ritagliato un piccolo spazio personale nel mondo dei superalcolici. Nel 2018 ha infatti lanciato il suo “Singani 63”, un distillato dell’uva tipico della Bolivia» (Cabras) • «Dal 1989 al 1994 Soderbergh fu sposato con Betsy Brantley, con la quale ebbe la sua prima figlia Sarah. Dal 2003 il regista è invece sposato con Jules Asner, ma la sua seconda figlia, Pearl Button Anderson, arriva nel 2010 dalla relazione extraconiugale con Frances Anderson, che porta Steven in tribunale ottenendo la partecipazione alle spese per il mantenimento grazie al test del Dna» (Cabras) • «Capelli rasati e occhialetti cerchiati che fanno venire in mente il tipo “architetto italiano” (la battuta è del New York Times), più che il cineasta americano di successo» (Bizio) • «Uomo dalle eclettiche qualità, sempre capace di innovazioni in tutto ciò che fa» (Giovanna Grassi). «Il regista più cinefilo di Hollywood, tuttora operatore e direttore della fotografia di tutti i film che gira. […] Una parabola artistica fra le più eclettiche di Hollywood, che da enfant prodige del cinema indie l’ha portato a essere fra i registi più rispettati dell’industria» (Celada). «Alterna piccole storie indipendenti a produzioni degli studios, temi sociali a film di genere. “Per me hanno tutti lo stesso valore, la stessa fatica. Sul set un film diventa come un videogioco: risolvi i problemi di una sequenza per accedere alla prossima”» (Maria Pia Fusco) • «Qual è il regista che più l’ha influenzata? “Richard Lester. Ha avuto un’enorme influenza su di me. Con A Hard Day’s Night ha praticamente inventato il rock video. Robin and Marian, Juggernaut, i due film sui Moschettieri, che trovo comicissimi, e anche Cuba, che venne silurato quando uscì: affascinante. Pieno di difetti, ma interessantissimo”» (Bizio). Qualche anno dopo, tuttavia, intervistato da Giovanna Grassi per il Corriere della Sera, definì Michelangelo Antonioni «il mio maestro in assoluto, che con il suo lavoro mi ha insegnato a raccontare storie e silenzi, psicologie e avventure esistenziali. Rivedo spesso il suo Deserto rosso: voi italiani siete stati davvero fortunati ad avere un autore come Antonioni. Altri autori? Mi piace il cinema noir, sorretto da buone sceneggiature, di David Mamet, grande scrittore, regista interessante» • «Come regista e produttore, a me interessa una sorta di approccio autoriale soprattutto in tv, in cui un singolo regista dirige praticamente un film di sei, otto o dieci ore. La tv è la nuova frontiera. Tv seriale e streaming hanno stravolto ogni criterio, […] da Netflix in poi. Incoraggio i giovani registi a misurarsi soprattutto in tv, su larga scala in termini di durata narrativa. Se impari questo, un film per il cinema di un’ora e mezza diventa facilissimo. Sempre che tu abbia qualcosa di significativo da raccontare» • «Molti attribuiscono a Sesso, bugie e videotape il merito di aver messo in moto il business del cinema indipendente. “La parola chiave è appunto ‘business’. Se il film avesse incassato un milione di dollari, che a me sarebbe andato benissimo, ora non staremmo qui a parlare di questo. E invece era costato poco più di un milione di dollari e ne ha fatti 25, e sappiamo che se qualcosa fa soldi la gente subito si interessa. Anche il suo impatto culturale dipende da questo: i soldi”» (Bizio) • «In che misura il mondo esterno influenza il suo cinema? “Molto. Penso sempre a cosa succede ai personaggi dei miei film in quanto parte della società contemporanea”» (Bizio) • «Di solito i film si concentrano sulla storia di due amanti, che magari si ritrovano in un hotel. Per me non è quello il mistero. Io penso: “Va bene, ma le persone che devono rifare i letti e cambiare gli asciugamani… chi sono, qual è la loro storia? E che cosa vedono loro?”. È questo che conta per me» • «Viviamo in un’epoca di esperienze e coinvolgimento e mi sembra diabolico pensare che i film debbano continuare a seguire una sola direzione. Non riesco a immaginare un futuro in cui non siamo coinvolti in ogni elemento del film e in cui la tecnologia non assuma un ruolo da protagonista, migliorando la nostra comprensione e fruizione dell’arte stessa. Dobbiamo cercare nuovi mezzi per avvicinare l’estetica del cinema allo spettatore, perché così, grazie a questa specie di natura voyeurìstica – quest’idea che stiamo guardando qualcosa che non dovremmo vedere, a volte senza saperlo a livello conscio – riusciamo a sviluppare un’intimità che aiuta moltissimo» • «Credo fermamente nel potere delle storie. Credo che la narrativa faccia parte del nostro Dna e che sia alla base dell’apprendimento e dell’evoluzione, sin dal principio. Appena abbiamo sviluppato la capacità di comunicare, abbiamo iniziato a raccontare storie. […] Mi sono sempre reputato incredibilmente fortunato di lavorare in un campo che ruota attorno alle storie, poiché senza di esse non sopravvivremmo. Il cinema è stato per molto tempo la forma più potente di narrazione. Vedremo se nel Ventunesimo secolo emergeranno altre forme espressive in grado di superarlo».