18 gennaio 2024
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Biografia di Cindy Sherman (Cynthia Morris Sherman)
Cindy Sherman (Cynthia Morris Sherman), nata a Glen Ridge (New Jersey, Stati Uniti) il 19 gennaio 1954 (70 anni). Artista. Fotografa. «I miei ritratti non sono autoritratti. Non cerco di mostrare una parte nascosta di me: cerco piuttosto di perdermi dentro al personaggio che interpreto» • «Tutto comincia al college o forse prima, tra le mura di casa, dove da bambina per sfuggire alla solitudine a cui la condannano quattro fratelli troppo più grandi di lei si inventa trame, personaggi e travestimenti che la sottraggono alla noia» (Chiara Mariani). «Ultima di cinque fratelli, […] guardava I Love Lucy alla tv e covava inquietudini più grandi di lei – era il tempo in cui si cerchiava a penna la faccia nelle foto dell’album di famiglia, scrivendoci sotto “that’s me”, “sono io”, per riconoscersi, per individuarsi» (Irene Alison). «A 10 anni, insieme all’amica Janet se ne andava in giro per le strade di Huntington, Long Island, con addosso i vestiti della bisnonna trovati nel seminterrato e in faccia un ghigno sdentato per spaventare i vicini. È tutto cominciato da lì, da un’infanzia apparentemente felice – “che solo anni dopo, in terapia, ho capito non essere stata così felice”, ha raccontato – passata a guardare troppa televisione, assorbendo i modelli culturali di un’epoca, l’inizio degli anni ’60, in cui sui media le donne erano rappresentate solo come mogli e madri, davanti ai fornelli con la messa in piega impeccabile e il trucco senza sbavature» (Alison). «Sin da bambina Cindy Sherman ha scelto di dedicare la propria vita all’arte, e prima di esprimersi come fotografa aveva pensato di diventare una pittrice. Sia il padre Charles, un ingegnere aerospaziale, sia la madre Dorothy, insegnante di bambini con problemi di apprendimento, reagirono con sorpresa, ma non fecero nulla per frenare una passione che appariva divorante. Cindy amava travestirsi da personaggi celebri utilizzando abiti acquistati al mercato delle pulci, ma i genitori pensavano che fosse un gioco: solo quando si iscrisse al dipartimento di Arti visive dell’Università di Buffalo compresero che per lei l’arte, e in particolare la rappresentazione, dava senso e sostanza all’intera esistenza. Nei primi tempi del college Cindy dipinse con dedizione, con passione, persino con furia, provando dentro di sé una frustrazione crescente: non che mancasse il talento, o l’immaginazione, ma sentiva che non era quello che cercava. “Ebbi la sensazione che non ci fosse più nulla da dire”, ricorda oggi, “e che stessi copiando meticolosamente il lavoro di altri artisti”. […] “Mi resi conto in quel frangente che avrei potuto utilizzare la macchina fotografica, e dedicare invece il mio tempo a un’idea”, spiega, ma all’inizio la scelta del nuovo mezzo fu casuale: “Una delle ragioni per cui iniziai a occupami di fotografia è che uno dei docenti, durante i corsi primaverili, portava gli studenti in un posto con delle cascate, dove gli studenti facevano il bagno nudi e si fotografavano a vicenda. Quella prospettiva non mi piaceva, ma ero eccitata dall’idea di lavorare nei boschi: iniziai così, e per fortuna nessuno si spogliò”» (Antonio Monda). «Bocciata al primo esame di Fotografia, insiste e rivolge l’obiettivo verso l’unica materia prima veramente originale e proteiforme che conosce perfettamente: se stessa. D’altra parte, l’abitudine al travestimento non l’ha mai abbandonata, e nei momenti di sconforto la camera del college si trasforma in un camerino dove pochi stracci e l’adorato make-up, condannato dalle femministe del tempo, colmano il senso di vuoto e di sconforto che nasce da un’autostima vacillante» (Mariani). «In una delle prime sequenze create per il corso di visual arts, documentava la sua trasformazione, a colpi di cerone e ciglia finte, da studentessa a femme fatale» (Alison). «Non fu uno studente modello, ma nel periodo del college avvennero due incontri che le cambiarono la vita: la docente Barbara Jo Revelle, che le fece approfondire lo studio dell’arte concettuale, e l’artista Robert Longo, con il quale instaurò un sodalizio sentimentale e professionale, che la incoraggiò a non aver paura di travestirsi, anzi a farne il cuore della sua arte. È con Longo, assieme a Nancy Dwyer, Michael Zwack e Charles Clough, che creò a Buffalo il progetto Hallwalls, un’istituzione culturale dedita ad accogliere artisti provenienti dalle tradizioni più disparate. Il luogo prescelto era uno spazio abbandonato nato per immagazzinare il ghiaccio, e Cindy, che all’epoca aveva vent’anni, fu tra le più appassionate al lavoro di riconversione. È in quell’ambiente, fertile di idee innovative, che Cindy formò la propria cultura e la propria personalità, come testimonia il primo lavoro significativo, Bus Riders, nel quale impersonava uomini e donne di età, estrazione e razza diverse. Si deve alle interminabili discussioni fatte in quell’ambiente se si convinse della necessità che avrebbe dovuto cimentarsi anche con altri mezzi, a cominciare dal cinema: sia lei sia Longo attesero più di vent’anni prima di debuttare, rispettivamente con Office Killer – L’impiegata modello e Johnny Mnemonic. In entrambi i casi non si tratta del loro lavoro più significativo, e quello che sembra mancare, specie nel caso di Cindy, è proprio la necessità, che invece assume una compiutezza struggente nelle fotografie che ha cominciato a realizzare a fine anni ’70: le Untitled Film Stills rappresentano un vero e proprio capolavoro. […] Il progetto fece di Cindy una star dell’arte contemporanea, condizione che la timidezza la porta a vivere ancora adesso con disagio» (Monda). «Realizzata quasi integralmente per le strade di New York, dove dopo l’università si trasferisce con il compagno di studi e di vita Robert Longo, la serie si nutre di riferimenti che vanno da Hitchcock alla Nouvelle vague, da Antonioni ai B movies americani. Sospesa tra il prima e il dopo di eventi a noi sconosciuti, Cindy è un’eroina da film sullo sfondo della tentacolare metropoli: un po’ Monica Vitti, un po’ Janet Leigh, a volte dark lady a volte casalinga frustrata, l’artista dà corpo in 70 immagini a una straordinaria galleria di cliché femminili» (Alison). «A rivederle oggi, l’elemento femminista appare lampante. […] Immagini indimenticabili, paradossalmente più potenti di quelle ottenute con le celebri e scandalose Sex Pictures. Tuttavia, se provi a dirglielo, Cindy taglia corto: “Il mio lavoro è quello che è: spero che sia percepito come femminista, ma non andrò in giro a proclamare stronzate teoriche sul femminismo”. Se le chiedi invece della presenza della morte, ti spiega che “la paura che volevo legare alla sessualità nasce dalla paura dell’Aids e dal terrore che generò nella nostra generazione”. […] Poche opere ne svelano l’anima come quelle raccolte nei progetti Fairy Tales e Disasters, dove quello che Grant Wood aveva immortalato come American Gothic si alterna a una rappresentazione di un orrore muto e senza speranza. Nelle immagini sconvolgenti in cui si ritrae morta traspare, per reazione, l’anelito per la vita, pur alla luce della cognizione del dolore» (Monda). «Davanti alla macchina fotografica, Cindy si trasforma. Dalle conturbanti adolescenti di Centerfolds (1981) alle madonne rinascimentali di History Portraits (1988-1990), dagli inquietanti pagliacci di Clowns (2003-2004) alle donne sconfitte di Society Portraits (2008), segretamente affrante sotto il botox e gli abiti eleganti, la sua ricerca è una lunga riflessione visiva sulle identità manufatte e seriali, sulle maschere che mettiamo ogni giorno. Rigorosamente senza titolo, per non orientarne la lettura, le sue immagini sembrano contenere sempre due diversi livelli, quello che puoi vedere e quello che puoi sentire. C’è la critica corrosiva agli stereotipi sociali e l’analisi empatica delle nevrosi contemporanee. C’è la nota struggente di Divas (2016), incursione nei territori della vecchiaia, in cerca di un nuovo dialogo con un corpo – il proprio e quello dei propri personaggi – ineluttabilmente trasformato dal tempo, e c’è la spiazzante ironia di Men (2020), esplorazione nei territori della mascolinità ed ennesimo travestimento indossato per indagare l’identità di genere come performance» (Alison). «Non esiste museo di prima categoria, dal Moma alla Tate, che non la rincorra per una retrospettiva» (Monda) • L’11 maggio 2011 Christie’s New York batté all’asta uno dei suoi scatti per 3.890.500 dollari, allora il prezzo più alto mai pagato per una fotografia (primato in seguito battuto). «La fotografia miliardaria, Senza titolo #96 (1981), rappresenta una teenager sdraiata per terra che tiene tra le mani un annuncio di giornale per single. In questo caso la ragazza Sherman, innocente e seducente, ansiosa di mettere fine alla sua solitudine con un incontro programmato, voleva alludere alle doppie pagine poste al centro dei giornali pornografici di quegli anni definite centerfold, come la serie a cui appartiene la fortunata fotografia. Ironia della sorte, la rivista Artforum che l’aveva commissionata e pagata la rifiutò e non la pubblicò mai» (Mariani) • «A vederla di persona fa impressione quanto sia curiosa, poco pretenziosa e autoironica. Riservata e silenziosa com’è, parla pochissimo della vita privata: oggi è legata al gallerista Jack Hanley, ma in passato è stata sposata con il fotografo francese Michel Auder e ha avuto una relazione con David Byrne. Nulla però la infastidisce come il ricordo di Paul Hasegawa Overacker, in arte H-O, un cineasta con cui chiuse ogni rapporto quando lui girò un documentario nel quale raccontava la frustrazione di essere accettato in società solo come suo accompagnatore: il titolo era Guest of Cindy Sherman. Soprattutto da allora minimizza le uscite pubbliche, e semmai è lei a ricevere nella bella casa newyorkese affacciata sull’Hudson, dove, nell’interrato, ha ricavato il proprio studio. Il suo party natalizio è tra i più divertenti e ambìti di New York, ma quello che colpisce maggiormente non è tanto la generosità con cui vengono offerte prelibatezze di ogni genere, ma la gentilezza con la quale accoglie tutti con aria vagamente indagatoria, come se sottintendesse “Questa è la vera Cindy”. Un’occasione del genere è anche una rappresentazione, e in questo gioco identitario di rimandi lei si diverte a spiazzare ulteriormente, concedendosi qualche vezzo, come quello di ricevere a volte con un pappagallo sulla spalla» (Monda) • «Fuori dagli scatti Cindy Sherman è una donna sottile, elegante, semplice, persino timida, amante della boxe fino a praticarla» (Mariani). «Poche, nell’arco di una carriera cominciata negli anni ’70, le foto che ritraggono al naturale – “La gente è troppo curiosa di come io sia veramente” –, rarissime le interviste. […] Le foto della sua faccia sono state appese in musei e pubblicate su magazine di mezzo mondo, hanno campeggiato sulle fiancate di autobus e sulle facciate dei palazzi per pubblicizzare le sue attesissime mostre, vengono postate regolarmente da lei stessa su un account Instagram da più di 340 mila follower: eppure, se la incontrassimo al supermercato, nemmeno la riconosceremmo» (Alison) • «La maggior parte dei suoi ritratti, se li è fatti da sola nel suo studio, utilizzando l’autoscatto. Solo ultimamente, in alcune delle sue opere, ha fatto ricorso ai mezzi digitali e a una tecnologia meno “fatta in casa”. Non sempre con gli stessi straordinari risultati del passato» (Francesco Bonami). «Nessun testimone, o quasi, è ammesso quando lavora, ricoprendo tutti i ruoli: artista, fotografa, performer, costumista, make up artist, set designer. Nessuno eccetto Mister Frieda, il suo pappagallo» (Alison) • «Uno degli astri più luminosi e sfuggenti della scena contemporanea, […] una donna che per quarant’anni si è vestita e truccata per dare corpo ai suoi (e nostri) mostri» (Alison). «Il suo contributo alle arti visive è grande se si pensa alla quantità di artisti che si sono ispirati al suo esempio e hanno riempito le gallerie con ciò che in gergo si chiama la set-up photography, in cui uno scenario complesso ed enigmatico è abilmente costruito e poi fotografato» (Mariani). «Una carriera eccezionale. Un percorso in cui l’artista ha declinato in tantissimi modi diversi la stessa idea, la rappresentazione dell’identità femminile. […] Sarebbe un errore pensare che le sue opere siano autoritratti. Infatti lei presta solo se stessa alla sua arte, come un’attrice farebbe con un ruolo diverso per ogni film. […] Forse solo il pittore tedesco Gerhard Richter ha avuto la stessa costante influenza sulle tante diverse stagioni dell’arte dei nostri giorni. In fondo sia Richter che la Sherman parlano della stessa cosa: la storia. Richter forse di quella con la “s” maiuscola, la Sherman di quella, non meno importante, con la “s” minuscola. La storia fatta dalle persone che non sanno di far parte della storia. […] Cindy Sherman in ogni sua foto ha provato a immaginare di entrare dentro l’immagine e diventare una persona qualunque, esplorando i desideri, le paure, le angosce di ciascuno di noi, ma anche la soddisfazione illusoria e a volte la bugia di piacersi. Come abbiamo fatto tutti e tutti continueremo a fare» (Bonami). «Per me Cindy Sherman è due gradini sotto Dio» (Francesco Vezzoli) • «Io penso che il mio lavoro abbia sempre avuto a che fare con il modo in cui le donne sono ritratte nei media» • «Se le dici che dal suo lavoro emerge una visione cupa dell’esistenza, afferma: “Vedo l’umorismo in ogni cosa, anche in quelle grottesche: non voglio che la gente lo affronti come se fosse un documentario che mostra il vero orrore. Voglio che sia artificiale, così che tu possa riderne, come faccio io di fronte ai film dell’orrore”. Lo afferma con forza, ed è difficile capire se anche questa sia una rappresentazione» (Monda) • «Non mi piace parlare della mia arte. Quando mi guardo indietro e ripenso al lavoro che ho fatto, comincio a dubitare di me stessa: magari sono tutte cazzate».