30 gennaio 2024
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Biografia di Alessandro Benvenuti
Alessandro Benvenuti, nato a Pelago (Firenze) il 31 gennaio 1950 (74 anni). Attore. Comico. Regista. Sceneggiatore. Commediografo. Musicista. «Io vivo di teatro, sono un operatore culturale e soprattutto un uomo libero» (ad Angela Calvini) • Da ragazzo era «uno studente che i genitori volevano perito tecnico ma che sognava di diventare artista. Mio padre era operaio alle ferrovie e voleva che io diventassi capo reparto: controllore dei controllati. Ma io sognavo e scrivevo sketch e canzoni» (a Roberto Incerti). «Fare teatro mi ha aiutato a moderarmi, perché sono troppo intemperante. Ho cominciato a improvvisare alle elementari: nel quarto d’ora dell’intervallo raccontavo i film di Stanlio e Ollio aggiungendo varianti alla trama. A 12 anni avevo riscritto I ragazzi della via Pál mettendoci dentro gli amici del mio paese, Pontassieve. A 14 anni ho fatto la mia prima regia a teatro, poi sono stato cantante di una rock band dai 18 ai 20 anni». «All’epoca uscì una canzone dei Procol Harum, A Whiter Shade of Pale, che, oltre a uccidere definitivamente il beat, perché aveva delle reminiscenze pacchiane e moduli musicali molto singolari, praticamente accese la nostra fantasia. Io e i miei amici frequentavamo la chiesa e, con l’organo della sacrestia a mo’ di tastiera, formammo un gruppo. Io avevo delle capacità canore e quindi diventai il cantate della Vercingetorige Six Company. Il nome del gruppo, omaggio al famoso gallo che non si piegò all’Impero romano, rappresentava la nostra “resistenza” al sistema. Suonavamo rhythm’n’blues, pop e rock. In seguito diventai anche l’autore del gruppo» (ad Annamaria Orlando). «Poi, durante il servizio militare a Cividale del Friuli, ho fatto il mazziere della banda della divisione Mantova. È lì che ho conosciuto Patrizio Fariselli, l’ex tastierista degli Area che ha firmato gran parte delle colonne sonore dei miei film, e Giuseppe Pellicciari. Ed è stato grazie a loro che ho deciso di fare questo mestiere. Però la musica mi è sempre rimasta nel cuore» (a Beatrice Manetti). «Ormai consumato in ogni settore artistico, Benvenuti rientrò a casa dal militare accompagnato da una mazza da tamburo. Fu allora che, girando per il paese natio, capì che non c’era bisogno di girare il mondo. Il mondo stava lì, racchiuso tra la Casa del Popolo e la parrocchia, il campo di calcio e la stazione degli autobus» (Marco Ferrari). «Ci fece un provino un organizzatore fiorentino che aveva avuto l’intuizione che sarebbe tornato il cabaret: era il 1971 e il primo trio era composto da Athina Cenci, Paolo Nativi e io. Io ho cominciato a scrivere testi e canzoni, e così nacquero i Giancattivi». «Cosa significa Giancattivi? Come è saltato fuori questo nome? “Viene dal latino ‘iam captivus’, schiavo liberato, legato all’origine del cognome del primo socio fondatore del gruppo, Paolo Nativi, che purtroppo è morto. A quanto pare, una colonia di schiavi liberati dall’Impero romano si trasferì a Roccastrada, in Maremma, dove fondarono una comunità di mugnai. Nel ’700 da Giancattivi mutarono il cognome in Nativi”» (Orlando). «I Giancattivi erano una necessità storica, lui lo sapeva. La satira cabarettistica non aveva mai sfondato nelle Feste dell’Unità e nelle Case del Popolo, ancorate rigorosamente a Bertolt Brecht e al maestro di Pietralata. I Giancattivi entrarono di prepotenza in quel mondo serioso in cui si guardava con sufficienza e distacco coloro che si dilettavano in ironia e autoironia. Il trio non si perse d’animo e, creando lo Humor Side all’interno di quella mitica roccaforte rossa della Società di mutuo soccorso di Rifredi, introdusse la satira nella sinistra ufficiale. Quando poi arrivò il boom catodico, ecco il trio conquistarsi uno spazio televisivo di rilievo. […] Alla costante presenza di Benvenuti e della Cenci fa da riscontro una costante mutazione del terzo “incomodo”: dopo Nativi ecco Franco Di Francescantonio, Tonino Catalano, Francesco Nuti e Daniele Trambusti» (Ferrari). «“Io e Athina Cenci – e la prego di scrivere ‘enormi’ – eravamo due enormi rompicoglioni. Due cerberi terrificanti. Pedanti, molto comunisti, abbastanza ideologici e anche un po’ ossessivi con quella storia dello studio, delle prove, dell’attenzione maniacale a quel che facevamo. […] Non cercavamo il successo facile. Quando con i Giancattivi iniziammo a calcare il cabaret eravamo talmente alternativi che non ci volevano neanche gli alternativi”. […] “Eravamo partiti come operatori culturali dell’Arci nel 1972 e aggregando realtà molto diverse tra loro, anche europee, avevamo creato una rete di realtà in cui tra satira e pantomima si sperimentava un teatro lontano dai circuiti ufficiali. Una sera venne a vederci Mario Luzzatto Fegiz e scrisse un bellissimo pezzo sul Corriere. Le lodi attirarono le attenzioni di Bruno Voglino e di quel genio dimenticato di Enzo Trapani, il regista di Non stop. Lui e il suo autore, Alberto Testa, vennero a cercarci. […] Ci convinsero a partecipare a Non stop dicendoci che ci sarebbe stato Massimo De Rossi. Lo stimavamo. Così andammo”». «“Il componente del trio di allora, Antonio Catalano, ci lasciò perché la tv non gli interessava. Di corsa dovemmo cercare un sostituto”. Che fu Francesco Nuti. “Francesco, che ci ha portato tanta fortuna, è arrivato quando già avevamo il contratto. Un funzionario dell’Arci regionale toscana dove lavoravamo come operatori culturali ci presentò questo giovane di talento ancora poco conosciuto. L’anomalia del nostro gruppo è che noi eravamo contemporaneamente sia Augusti sia clown bianchi. Ovvero, i nostri ruoli erano intercambiabili, eravamo più strutturati e potevamo fare qualsiasi cosa”» (Calvini). «Senza la tv il suo percorso sarebbe stato lo stesso? “Non credo. Non stop cambiò la comicità tv in Italia. Con il nostro circuito di cabaret d’autore eravamo apprezzati, ma penso che nessuno ci avrebbe riconosciuto il lavoro sotto traccia che facevamo da anni sul meglio della comicità. Una volta suggerimmo Roberto Benigni ai promotori di una Festa dell’Unità. Lo presero. Lui cantava L’inno del corpo sciolto: in platea si guardavano perplessi. Alla fine si avvicinarono truci i promotori: ‘Ma chi ci avete mandato?’. ‘Questo farà strada’, rispondemmo”. […] Poco dopo Non stop, lei firmò Ad ovest di Paperino. Nel cast lei, Athina Cenci e Nuti. “A un certo punto Francesco non sopportò più l’idea che io fossi l’autore. Voleva giustamente volare con le sue ali, ma scelse il momento sbagliato, perché la sua insofferenza montò dopo 10 giorni di riprese. Era la mia prima volta alla regia: in mano non avevo preso mai neanche una Polaroid. […] Ricordo quella lavorazione con grande sofferenza. I sorrisi forzati, i rospi da ingoiare, le scene da girare come se nulla fosse anche se l’incanto era finito da un pezzo”» (Malcom Pagani). «Ad ovest di Paperino […] è giudicato un film generazionale. Il surrealismo dei tre squattrinati protagonisti fu invece un buon viatico per un genere di futuro successo, quello toscano, e fu un buon viatico anche per i tre interpreti, che trovarono la loro realizzazione come solisti. È vero, ci fu ancora un film corale, Era una notte buia e tempestosa, […] ma oggi appare il canto del cigno dei Giancattivi» (Ferrari). «Poi accadde quello che accade a chi è all’apice del successo, cioè la caduta, oppure il balzo verso un altro territorio. Il gruppo si sciolse perché avevamo raggiunto gli scopi prefissati, cioè fare cabaret, farci conoscere a livello nazionale, vincere dei premi, debuttare al cinema e nei grandi teatri. C’è un momento in cui è necessario che ciascuno cammini con le sue gambe». «“In un inverno di inizio anni ’80, a Roma, dovetti decidere se farmi tagliare la luce o il telefono. Scelsi la luce perché dalla cornetta poteva sempre arrivare un ingaggio e perché di tornare sconfitto al paesello non se ne parlava. Non ne sarei più uscito. Così tirai la cinghia, e quando mi trovai allo stremo venni salvato dai film commerciali”. Gegia, Sabrina Salerno, Guido Nicheli. Professione vacanze di Vittorio De Sisti, 1985, è un caleidoscopio degli anni ’80. “Avevo bisogno di soldi, ero veramente ridotto sul lastrico e quindi ripartii dal fondo. Da dove non sarei mai voluto andare. Fu una grande scuola quel tipo di cinema. Anche di sofferenza”. Perché? “Perché in qualche modo dovevo espiare. Avevo perso il successo proprio perché non ne avevo avuto coscienza. […] Volevo vivere e per vivere si fanno tante cose. Volevo lavorare e provavo a farlo in qualunque contesto con grandissimo impegno e dignità”. […] Quanto durò quel suo momento di difficoltà? “Tra l’83 e l’86, l’anno in cui finalmente cominciai a rivedere un po’ di serenità”» (Pagani). «Si rituffò nel teatro interpretando Corto Maltese di Ongaro-Pratt-Mattolini, poi Marta e il Cireneo di Ugo Chiti, e nell’86 iniziò una serie di spettacoli teatrali e quindi di trasposizioni cinematografiche […] incentrate sulla famiglia e sugli interni toscani: W Benvenuti, Benvenuti in casa Gori, Ritorno a casa Gori. Alessandro Benvenuti è diventato una fucina operosa filmando […] opere cinematografiche, decine e decine di testi teatrali e alcune trasmissioni televisive. […] Alla Toscana industriale di Benigni, alla Toscana laniera di Nuti, alla Toscana goliardica di Pieraccioni, Benvenuti contrappone una Toscana autentica. Il suo villaggio diventa villaggio globale, un po’ come quello di Monsieur Hulot. Passato, presente e futuro sembrano fondersi in un “non tempo” che può condurre direttamente dall’Ottocento al Duemila. La resistibile resistenza di Gino, personaggio chiave della saga dei Gori, […] è il simbolo di questa Toscana autentica che, seppure inurbata, costretta a confrontarsi con la modernità, a fare i conti con una fantasiosa e malamente incrociata parentela, obbligata a lottare con l’ineluttabilità del tempo, mantiene una carica di rozza saggezza, una sorta di “coscienza rustica”, come la definisce lo stesso Benvenuti» (Ferrari). «Toscano verace, condisce i suoi film d’intonazioni e vernacolo sempre un po’ troppo caratterizzati, ma senza mai degenerare in macchiettismi televisivi. Fra i film da lui diretti e interpretati, la mini-saga Benvenuti in casa Gori (1990) e Ritorno a casa Gori (1996), la delicata commedia sulla “diversità” Belle al bar (1994), con E. Robin’s, e ancora Ivo il tardivo (1995), I miei più cari amici (1998) e Ti spiace se bacio mamma? (2003)» (Gianni Canova). «La sua collaborazione con Ugo Chiti (sceneggiatore e autore teatrale) ha prodotto la trilogia di successo Gori, da cui sono stati tratti due film, Benvenuti in casa Gori e Ritorno a casa Gori. Come mai il terzo capitolo non è ancora uscito nelle sale? “Ho smesso di fare cinema volontariamente. Dopo I miei più cari amici ho fatto solo un altro film, Ti spiace se bacio mamma, ma quello fu proprio richiesto dalla Rai: fui come precettato. […] Di Addio Gori non abbiamo fatto il film perché io avevo già terminato di fare cinema, quindi non mi è riuscito naturale proporre il terzo episodio a un produttore cinematografico”» (Orlando). «Nel 2004 condusse Striscia la notizia: perché solo 5 giorni? “Perché ritenevo conclusa la mia avventura. Mi chiamarono per fare la rivoluzione: un’idea di Ricci, perché Striscia era in caduta libera, con Bonolis che le stava facendo le scarpe. Dopo una notte insonne scrissi 50 pagine per rivoltare il programma, senza più veline. Mi dissero: eh, ma così ci fai lavorare. In studio mi ritrovai con Luca Laurenti e pure Sconsolata (Anna Maria Barbera, ndr), che non era prevista. Fu un tradimento”» (Ilaria Ravarino). Nel 2008 «ho ripreso la mia vecchia passione, la musica. Ho scritto Capodiavolo, che contiene delle mie composizioni, spettacolo che è stato in tournée per tre anni, poi con la Banda Improvvisa di Loro Ciuffenna abbiamo messo in scena Storia di un impiegato con canzoni di De André e ancora Benvenuti… all’Improvvisa!, con cover e brani miei. Infine ho messo su, con una nuova band, Zio Birillo (storie di acida amenità): un’analisi dell’Italia dal ’60 a oggi raccontata da un giovane ragazzo, cioè da me a quell’epoca, fino alla rivolta […] “dei gelsomini” del Nord Africa”». Oltre a esercitare l’incarico di direttore artistico del Teatro di Tor Bella Monaca a Roma (dal 2013) e del Teatro Comunale dei Rinnovati e del Teatro dei Rozzi a Siena (dal 2018), negli ultimi anni ha portato in scena il suo monologo Panico ma rosa (dal diario di un non intubabile) («Panico ma rosa è l’acronimo dei nomi e cognomi di tre amici miei: sono stati felici di lasciarmelo usare come titolo. Però in realtà, a parte che suona bene, esso sintetizza in qualche modo il periodo trascorso chiusi in casa per la pandemia: c’era di certo il panico per non sapere cosa sarebbe accaduto, ma rosa, perché almeno io ho avuto la fortuna di trascorrerlo abbastanza serenamente dal punto di vista economico e affettivo») e, dal novembre 2023, Falstaff a Windsor, rielaborazione di testi scespiriani a cura di Ugo Chiti. «È come se Chiti si fosse messo di pari passo a seguire con rispetto le tracce di Shakespeare, ma poi a un certo punto, come è giusto che sia, avesse deviato per le sue strade. Del resto Ugo è un autore di grande spessore, ed è logico che abbia espresso la sua creatività su questo personaggio. Dedicandomelo» (a Olga Mugnaini). Dal 2014 è anche uno dei quattro anziani investigatori dilettanti della serie televisiva I delitti del BarLume (Sky), ispirata ai romanzi di Marco Malvaldi. «Lei è entrato nella serie dalla seconda stagione, dopo la scomparsa di Carlo Monni (Ampelio), con un personaggio, quello di Emo Bandinelli, ex suocero di Timi, che non esiste nei gialli originali di Malvaldi. Quell’anziano burbero le somiglia? “Malvaldi mi ha cucito addosso il personaggio, Emo mi è stato dedicato, ma non mi somiglia. […] Per interpretarlo mi sono incarnato in mio padre, che era molto sanguigno, uno zolfanello pronto ad accendersi, talvolta anche violento nelle sue emozioni”. Non è la prima volta che si ispira a suo padre… “L’avevo già portato in scena, al cinema e al teatro, parecchie volte, a partire dal Gino Gori di Benvenuti in casa Gori, e mi piace molto il fatto che a interpretarlo fosse Carlo Monni, che io ho sostituito, dopo la sua morte, ne I delitti del BarLume”» (Antonella Piperno) • Tre figlie dal matrimonio con Alessandra Grazzini, sua stretta collaboratrice teatrale. «Lei mi è fondamentale nelle regie e soprattutto negli adattamenti di testi di lingua inglese. Chiara infatti riesce a dare compiutezza alla riscrittura dei testi come se fossero stati scritti in italiano. E poi è un punto di riferimento per tutti i miei dubbi: posso sempre contare sulla sua capacità di capire dove sono i momenti di stanchezza in un determinato testo» (a Filippo Bordignon) • «Athina e Francesco sono state le persone più importanti nella mia carriera. Mi hanno consentito di mettermi alla prova come autore e regista, di studiare e di mettere in pratica. Athina è stata la mia prima musa, era l’uomo del trio. Francesco era senza briglie. Insieme eravamo impossibili». «Athina è la madrina della mia terza figlia, andiamo insieme a teatro». Per Nuti (1955-2023), dopo la rottura, «ho nutrito 3 anni di odio assoluto. Tre anni di odio vissuto bene, bene, bene. […] Il nostro riavvicinamento fu dolce. Avevamo rialimentato i nostri sogni giovanili: portare in scena Aspettando Godot. È mancato il tempo. Ed è un grande dispiacere» • «Sono un orso, non so fare salotto» • «La vostra era una comicità innovativa: e quella di oggi? “La rete oggi è un mezzo nuovo e diverso e si sono molto ampliate le possibilità di chi ha talento. Quando noi abbiamo fatto tv potevamo raccontare delle storie, fare un mini-atto unico anche di 15 minuti. Oggi non puoi, hai tempi strettissimi. La grande differenza è fra l’umorismo usa e getta e quello duraturo, che si basa su archetipi come il dolore, il reale, la filosofia, l’amore. La comicità è una grande lettura di quella immensa tragedia che è la vita, è quel vento cosciente che ti tranquillizza, ti dà una lettura dell’esistenza che te ne fa accettare il peso”» (Calvini). «Come direttore artistico di vari teatri, osservando scientificamente la comicità, posso dirle che non ho mai riso tanto in vita mia come con il Macbettu di Alessandro Serra, che Samusà di Virginia Raffaele è stupefacente e che Italo Pecoretti con i suoi burattini alla Tim Burton mi fa tornare bambino. La comicità serve a risvegliare il bambino che è in noi, no?» • «Si emoziona ancora ad andare in scena? “Sì, ma più che l’emozionarsi è il trascendere. La battaglia col pubblico ti prosciuga, è più una trincea che una nuvola. Ma poi sul palcoscenico arriva lo stato di grazia ed entri in una dimensione spirituale: il teatro è un canto mistico, un rito laico sacro. Ed è terapeutico: alla fine sto meglio, anche fisicamente, nonostante la fatica”. […] E si diverte ancora? “Molto, a fare le mie sfide, le mie ricerche di nuove forme di comicità. Mi diverto, anche se è una lotta”. […] “La vera gioia è sorprendere chi ti viene a vedere. Creare una suggestione o una fascinazione. Essere affascinanti è più importante che essere bravi. Di bravi, ce ne sono tanti”» (Marrese) • «Che bilancio fa della sua vita professionale? “Nutro un grande rispetto per me stesso: il mondo dello spettacolo era un mio sogno fin da quando ero bambino e credo che se non avessi fatto l’attore sarei andato in galera, perché sono troppo intemperante. E oggi non sento la mia età, se non quando sento qualche affanno in più sul palcoscenico. Mi sento una persona dalla carriera pulita, non ricattabile, non legata al potere e quindi libera. Ho sempre detto la verità alle persone, ed è questo l’insegnamento che ho dato alle mie figlie”. […] Ma c’è qualcosa in particolare della sua carriera che incornicerebbe? […] “Darei una posizione privilegiata a Benvenuti in casa Gori, perché mi fece ripartire dopo il fallimento dei Giancattivi, e a Ivo il tardivo, espressione di un momento di grazia”» (Piperno).