Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 27 Martedì calendario

Intervista a Toni Servillo


Uno scrittore napoletano, Giordano Fonte, che torna nella sua città e la scopre attraversata da nuove pulsioni, più che mai indecifrabili. In pratica, dice Toni Servillo parlando del suo ruolo nel film diretto da Marco D’Amore Caracas, tratto da Napoli Ferrovia di Ermanno Rea (da giovedì nei cinema), «una vecchia cariatide comunista in crisi esistenziale».
Un altro ritratto nella galleria dei suoi tanti ruoli. Dove si sente più a casa?
«Di recente sono stato un anziano criminale in Adagio, un Pontefice, Paolo VI, in Esterno notte, e un personaggio di Iddu, il film su Matteo Messina Denaro diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, in cui recito accanto a Elio Germano. Considero una fortuna poter fare questo mestiere sempre governato da un tumulto eccitante».
La crisi di Giordano Fonte riflette in qualche modo quella che oggi riguarda una larga fetta di intellettuali. È così?
«In effetti la figura di Fonte non offre alcun conforto, racconta una disillusione, uno smarrimento, un senso di inadeguatezza, dovuto al non disporre degli strumenti utili a interpretare una realtà che si moltiplica a ritmi vertiginosi, con contraddizioni che esplodono a ogni piè sospinto».
Secondo lei esiste inadeguatezza anche a livello di espressione artistica?
«Se parliamo di cinema in generale, dobbiamo dire che questo è stato, anche sul piano internazionale, un anno di film molto belli».
Che cosa le è piaciuto?
«A parte il capolavoro di Martin Scorsese che in Killers of the flower moon ci racconta, ancora una volta con la sua maestria, che molto spesso la storia la fanno gli assassini, sono stati diversi i film, come Holdovers, Past lives, Perfect days, che mostrano un aspetto comune».
Quale?
«I registi rispondono a quel senso di smarrimento e di frammentazione con opere che parlano direttamente al cuore e ai sentimenti delle persone, quasi come se si volesse recuperare una dimensione tutta umana dello stare al mondo. Parlare al cuore significa ritornare al considerarci umani, perché oggi quello che fa veramente più impressione di tutto, è la disumanizzazione del mondo».
Napoli sta cambiando, è sempre più gentrificata. Questo finirà per sfigurarla?
«Non succede solo a Napoli. È un processo impressionante, il fatto è che sulla terra siamo tanti e che, dopo la pandemia, è esploso, molto più forte di prima, il desiderio di evadere».
Qual è il pericolo maggiore che questo processo comporta?
«Dietro tutto questo c’è lo spettro di un consumismo nudo e crudo, del mordi e fuggi, una cosa anche un po’ selvaggia perché poi ha ricadute pratiche negative. Per uno studente a Napoli è diventato difficile trovare casa perché tutti gli appartamenti sono stati trasformati in B&B. Anche in questo caso siamo travolti da un fenomeno mondiale, che riguarda le città con forte potere attrattivo».
Il film mostra una Napoli islamica e il fiorire di gruppi di estrema destra, realtà molto contemporanee. Napoli è sempre una sorpresa?
«Secondo la mia modesta opinione Napoli continua a essere l’unica grande metropoli del nostro Paese, nella misura in cui offre quotidianamente un esperimento sociale di movimento dalla periferia al centro e viceversa, con il portato di tutte le proprie contraddizioni».
Come ci si salva a Napoli?
«Sicuramente, nella sua natura così singolare, Napoli offre storie, luoghi, climi, atmosfere, in cui le domande vengono alimentate. Napoli è una città viva, scrittori, registi continuano a considerarla un luogo dove trovare storie che pongano interrogativi. Da questo punto di vista Napoli si salva, non è una città indifferente, né addormentata, né sonnolenta. La domanda sulla possibilità di salvarsi è estendibile a tante altre condizioni dello stare al mondo».
Un aspetto di Napoli sempre apparso immutabile riguarda la religiosità. Ma anche questo, e il film lo racconta, si sta trasformando.
«La ricerca di purezza del protagonista di Caracas, il disagio dell’identificare un proprio posto nel mondo, è raccontato da una parte attraverso l’adesione al fanatismo dell’ultra destra e, dall’altra, attraverso la capacità del mondo islamico di accogliere la povertà di chi migra da Paesi difficili cercando casa da noi. La religione, in questo caso, è l’occasione per trovare una collocazione politico-sociale all’interno di una grande città».
Che cosa si augura in questo momento?
«Ho molta fiducia nei giovani, non a caso ho deciso in Caracas di invertire i ruoli e farmi dirigere da un attore che, da giovanissimo, è cresciuto nella mia compagnia teatrale. Mi piace stare accanto a persone come Marco, che hanno deciso di sfruttare la popolarità senza limitarsi a rilanciarla sul piano commerciale, ma accettando sfide complicate per temi e linguaggi, che possano coinvolgere la loro generazione».
L’Italia è in corsa agli Oscar con Garrone, che l’ha diretta in Gomorra. Che ne dice?
«Sono fra i votanti degli Academy Awards, al mio voto per Matteo aggiungo un augurio profondo, sentito, per un autore con cui ho girato uno dei miei film più belli, mi auguro che si ripeta la gioia di dieci anni fa e che il riconoscimento certifichi, ovemai ce ne fosse bisogno, che grazie a Matteo, a Sorrentino, a Martone e pochi altri, abbiamo autori che non hanno nulla da invidiare ai grandi registi internazionali».