la Repubblica, 26 febbraio 2024
Lenin, la vertigine del potere
Davanti a quella porta bianca si fermò, come se fosse la soglia del mondo nuovo inseguito da anni, il punto d’ingresso nella rivoluzione, senza più via d’uscita. Poi entrò senza bussare nella stanza a sinistra in fondo ai 180 metri di corridoio al terzo piano dello Smolnij, il quartier generale dell’insurrezione bolscevica, un bivacco di soldati, fagotti, fucili, zaini, tra le cartacce e gli sputi per terra.
Vladimir Ilic era irriconoscibile: dietro al lasciapassare del Soviet intestato a Konstantinos Petrovic Ivanov c’era uno sconosciuto con tracce di tintura su un’improbabile parrucca grigia, gli occhiali con la montatura massiccia, un fazzoletto che gli fasciava la testa sotto un berretto floscio. Niente pizzo, barba rossiccia e baffi. Cancellando la sua stessa figura, barcollando per fingersi ubriaco nella città sottosopra, Lenin in realtà stava penetrando a mezzanotte del 6 novembre 1917 nell’anticamera russa del potere.
Era sfuggito alla protezione maniacale dell’organizzazione bolscevica che dopo l’ordine di cattura del governo e le perquisizioni a casa della sorella di Ilic, aveva deciso di nasconderlo nel quartiere delle fabbriche, a Vyborg. Quattro mesi da clandestino, prima a casa dei compagni e infine in Finlandia, mascherato da fuochista sul treno per Helsingfors. Man mano che la febbre insurrezionale cresceva, Lenin si divorava nell’impazienza, sempre più irritato con il Soviet che per non perdere il suo Capo nell’ora decisiva lo segregava nella sicurezza, ma anche nella distanza, di nuovo lontano dal cuore impetuoso della rivoluzione.
Mandava istruzioni ai Soviet, da leggere riscaldando la scrittura sopra la fiamma, poi decise che doveva vivere ad ogni costo l’elettricità di quelle ore e tornò a San Pietroburgo, nascosto nell’appartamento bolscevico della vecchia militante Margherita Fofanova. Luci spente, niente rumori, una grondaia come via di fuga in emergenza, ma finalmente la possibilità di partecipare alla riunione decisiva del Comitato Centrale clandestino, che col voto di Lenin più altri nove decise l’insurrezione immediata, superando l’opposizione di Zinoviev e Kamenev.
L’ANNIVERSARIOLenin. Un romanzo russodi Ezio Mauro21 Gennaio 2024
Adesso era nell’ufficio di Lev Trotzkij, cuore e cervello della guerriglia urbana bolscevica, più tattica che di combattimento, perché Lev Davidovic aveva messo a punto una tecnica di conquista che lasciava intatti i palazzi del potere difesi dai cannoni, per disarticolare ad uno ad uno i centri nevralgici della capitale, disconnettendo dalla rete del governo le centrali del telefono, del telegrafo, delle poste, le stazioni, i porti, l’intero meccanismo tecnico-operativo che regola il funzionamento quotidiano della città. Così San Pietroburgo si afflosciava spegnendosi mentre passava di mano per poi riaccendersi sotto una nuova autorità, e la leva di governo che Kerenskij controllava finiva rapidamente in folle, nel comando del nulla.
La mappa della città che stava cambiando padrone era dispiegata sul tavolo di Trotzkij. «Questa stanza è vostra», disse subito Lev Davidovic mostrando a Lenin un letto pronto dietro il tramezzo con il catino e la brocca per la toeletta, e cedendogli il posto alla scrivania. È da questo osservatorio cieco, rassicurati dal fiume di telefonate con l’annuncio di nuovi pezzi di città conquistati, che i due Capi rivoluzionari guidano l’insurrezione nel gelo della prima notte bolscevica della Russia.
Nessuna rivoluzione, tuttavia, si compie davvero senza una conquista simbolica con cui inoltrarsi nella leggenda: e nella tragedia. In quell’ottobre 1917 a San Pietroburgo gli emblemi del vecchio e del nuovo mondo sono due, il Palazzo d’Inverno e i Soviet. Lenin non dormirà mai nel letto dello Zar dove invece passò le sue notti napoleoniche Kerenskij, fino a quando sotto la pressione della bufera bolscevica sulla capitale, l’ambasciatore americano gli mise a disposizione un’auto con la bandiera a stelle e strisce per fuggire alla ricerca di inutili rinforzi. Ma anche il Capo bolscevico quella notte non sfugge al fascino del Palazzo che sta per consegnarsi all’insurrezione: Lenin domanda a Trotzkij perché le Guardie Rosse non entrano nella reggia, e proprio in quel momento esplode il fragore del cannone che dall’incrociatore Aurora spara a salve la sua urgenza e affretta l’ epilogo, con la resa dei ministri.
Si apre l’ultima delle 1.786 porte della residenza imperiale, e la grande specchiera dorata raddoppia l’immagine inverosimile della rivoluzione che si compie firmando un verbale, per comunicare alla storia e alla burocrazia l’arresto in blocco del governo. a prima, nella notte, la cattedrale bolscevica aveva celebrato il rito pubblico della presa del potere.
Vladimir Ilic Lenin nel 1919
Padroni dello Smolnij, l’Istituto per l’educazione delle nobili fanciulle, i rivoluzionari forzano la porta della sala da ballo e fanno entrare i 650 delegati del II Congresso Panrusso. Fuori, San Pietroburgo non ha bisogno di annunci per capire che l’ora decisiva è ormai prossima. Alle due del pomeriggio i negozi chiudono i battenti, dalle tre gli uffici si svuotano, al tramonto le strade sono deserte e nei forni c’è pane soltanto per tre giorni, come se fosse inutile provvedere al futuro. Ma ecco gli applausi che salutano l’arrivo di Trotzkij.
Guarda la sala che ribolle e di colpo tace. Come un attore, si è preparato la formula solenne: «A nome del Comitato militare rivoluzionario dichiaro che il governo provvisorio ha cessato di esistere». Uno scoppio di applausi, urla, fischi di gioia. Lui chiede il silenzio: «Il Soviet compie un esperimento che non ha precedenti nella storia, creando un regime che non avrà altri interessi fuori dalle esigenze degli operai, dei contadini e dei soldati» È un proclama, e scatena il tripudio, ma non è finita. Trotzkij sta fermando gli applausi, e con un gesto della mano annuncia l’uomo di cui tutti parlano e che molti non hanno mai visto, l’incarnazione del comunismo bolscevico, lo pseudonimo della rivoluzione: lui, Lenin.
Dov’è? Tutti gli sguardi lo cercano per dare un volto alle voci e alle leggende che hanno preceduto il suo arrivo, ingigantite dal mandato di cattura che lo insegue da mesi. Improvvisamente, eccolo. È quello sconosciuto sbucato a sorpresa da 120 giorni di clandestinità, vent’anni di esilio, trentasei mesi di confino: calvo, basso di statura, senza il pizzo e i baffi delle fotografie stanotte è difficile riconoscerlo nel graffio gutturale della voce, quasi roca quando punta l’indice in avanti, come se interpellasse direttamente la folla.
Si era alzato dal letto nel mezzo dell’ultima notte prima della rivoluzione per l’urgenza di scrivere il «decreto sulla terra» con l’abolizione immediata della proprietà privata agraria, perché doveva essere il primo atto del nuovo governo.
Ora è qui: con un passo, entra nella vecchia sala da ballo, nel congresso del Soviet e nella cronaca della rivoluzione, che dalla clandestinità lo porterà alla testa del governo bolscevico. «Il potere dello Stato – annuncia – è passato nelle mani dl Comitato Militare Rivoluzionario, organo del Soviet. La causa per cui il popolo ha combattuto, ossia la pace, l’abolizione della proprietà terriera, il controllo operaio sulla produzione, è assicurata». È il momento supremo della rivoluzione, quando le promesse sono ancora intatte, gli errori evitabili prima che diventino orrori: quel momento in cui, dice Irene Nemirovsky che era bambina a San Pietroburgo, «l’uomo non si è ancora spogliato della pietà umana e non è ancora abitato dal demonio, che però gli si avvicina e turba la sua anima». Il Soviet in piedi sta cantando l’Internazionale.
Tutto è avvenuto in pubblico, una mossa dopo l’altra mentre niente si opponeva realmente, come se quel 7 novembre fosse un appuntamento inevitabile, scritto nel destino di San Pietroburgo. Ma se si guarda dietro le quinte della rivoluzione compaiono abbondanti le tracce dell’inquietudine dei ribelli, la paura di un colpo di coda del sistema, i dubbi finali che si scaricano in una piccola stanza con le sedie bianche ammucchiate, vicino alla sala del Soviet.
Nella notte Trotzkij e Lenin si stendono qui sulle coperte gettate a terra, provano a dormire almeno un’ora, ma è inutile. Nel buio, Lenin fa una confessione: «Sapete, dopo le persecuzioni, l’esilio, dopo essere stati fuorilegge, ecco il potere… Vengono le vertigini». Una pausa, poi ancora Lenin, sottovoce: «E cosa succederà se la Guardia Bianca ammazza me e voi? Credete che Sverdlovsk e Bucharin se la caveranno?». «Ma forse – risponde Trotzkij ridendo – non ci ammazzeranno». «Lo sa il diavolo», conclude Lenin evocando nel gran teatro della rivoluzione l’unico personaggio che ancora mancava, e che attendeva nel racconto di Marina Cvetaeva, «seduto sul letto, nudo, con la pelle grigia da alano, con occhi bianco-azzurri come quelli di un barone del Baltico, le braccia allungate fino alle ginocchia»: testimone di ogni cosa nei secoli, in attesa che quel che deve ogni volta accadere, infine accada.
La notte del destino fa ancora in tempo, prima dell’alba rivoluzionaria, a mostrare la colonna dei ministri arrestati che sfila nel buio scortata dalla polizia verso il carcere, nella fortezza di Pietro e Paolo. Poche ore dopo si compie il passaggio del potere statale al governo operaio e contadino, che per marcare la rottura con la democrazia borghese si chiamerà Consiglio dei Commissari del popolo.
Lenin diventa Capo del governo, Trotzkij Commissario agli Esteri, Rykov agli Interni, Stalin alle nazionalità, Lunacarskij all’Istruzione. Comincia l’esperimento del primo governo comunista che dalla Russia vuole contagiare il mondo. Un avvento spoglio, senza un rito che assicuri la sacralità profana al nuovo sovrano, in un Paese che nei mille anni aveva visto portare la spada, il fuoco e la croce davanti a Vladimir il giorno della sua incoronazione a Kiev, lo zar Alessio uscire sulla slitta reale coperto da un mantello ornato di chiodi d’oro e d’argento, Paolo I° arrivare a cavallo all’appuntamento con la corona, e Ivan che diventerà il Terribile salire i dodici gradini per raggiungere il trono dove il metropolita Macario lo ungerà d’olio, prima di consegnargli lo scettro.
La nuova epoca non era soltanto priva di cerimoniale, rappresentando uno squarcio nella storia e un nuovo inizio, ma per la prima volta sperimentava un potere senza Dio, esclusivamente umano, nell’inedita separazione russa tra cielo e terra. Lenin esce consapevolmente dal perenne sovraccarico di vincoli celesti e garanzie ultraterrene, e rompe il vaso mistico della triade “Ortodossia, Autocrazia e Popolo” su cui si basa l’anima russa.
Battezzato, sposato in chiesa, Lenin prima dichiara che «ogni difesa dell’idea di Dio è la giustificazione della reazione», poi scatena una campagna contro i pope «feudatari in sottana, sanguinari nemici del popolo», cancella dalle scuole l’insegnamento religioso, ordina il saccheggio degli oggetti sacri nelle chiese e dispone «l’esecuzione del più gran numero possibile di esponenti del clero reazionario»: ventimila giustiziati nei primi anni dopo l’Ottobre, tra sacerdoti e parrocchiani. Il patriarca Tikhon capisce che è cominciata la salita al Calvario.
Parte dalla denuncia «del calice della collera di Dio che trabocca su di noi», avverte che «compaiono nell’anima russa i segni dell’Anticristo», annuncia la “persecuzione, quando non si celebreranno più i misteri, si seppelliranno i morti senza benedizione, tacerà il suono delle campane” e infine arriva alla scomunica dei bolscevichi: «Con il potere che ci deriva da Cristo, lanciamo contro di voi il sacro anatema, e vi proibiamo di accostarvi ai santi sacramenti, se ancora portate un nome cristiano».
Spenti a forza i ceri accesi nelle chiese il bolscevismo cammina da solo nella nuova Russia, e non potendo creare il sacro, inventa il mito, che nello Stato nascente si riassume nel suo demiurgo. Lenin non ostenta il potere, lo esercita, non cammina teatralmente sull’immaginario sentiero della vittoria come fa Trotzkij, che mentre parla si ammira nello specchio della storia. Non ci sono invece metamorfosi in Lenin prima e dopo la conquista del comando.
Negli incontri pubblici compare come al solito anonimamente, come se sbucasse ogni volta dalla normalità quotidiana, unico punto fermo, fisso, nel gran turbine della rivoluzione. Ma le parole trasmettono un’ossessione, che Gorkij vede arrivare sull’uditorio «con il gelido scintillio dei trucioli di ferro» mentre gli occhi di Lenin si socchiudono quando i toni si alzano, con le dita che si infilano nel gilet, sotto le ascelle, e la testa calva rovesciata all’indietro, nella posa di un gallo da combattimento. Capopopolo, Vladimir Ilic era consapevole di essere un simbolo.
Nel suo ufficio un giorno Angelica Balabanoff vide un uomo seduto a un tavolo laterale: «È uno scultore – spiegò Lenin – e questa è la diciottesima volta che viene a modellare la mia testa. Mi sottometto a questo rito perché lo ritengo utile, anzi necessario. I nostri contadini sono diffidenti, non leggono, hanno bisogno di vedere per credere. Se vedono la mia effigie, si persuadono che Lenin esiste».
Un’autorità naturale, come quando appena Ilic scese dal treno che lo riportava in Russia scattò imprevisto il presentat’arm del picchetto d’onore, fuori da ogni protocollo e da qualsiasi ordine; o ancora poco dopo, quando fu trasportato a casa della sorella Anna, in via Sirokaja 52, sulla torretta di un blindato che percorreva San Pietroburgo con la rivoluzione a bordo.
Bertrand Russell lo incontrò nel 1920, ormai insediato al governo: «Nulla– spiegò – rivela in lui l’uomo che ha in mano il potere. È dittatoriale, calmo, incapace di paura, privo di esibizionismo, una teoria incarnata, con poco amore per la libertà, e la concezione materialistica della storia è il suo sangue vitale». Dove non arriva il mito, comincia il terrore. La penuria alimentare del «comunismo di guerra» fa vacillare il regime sovietico appena nato, sotto l’assedio della fame. L’umiliazione della pace di Brest-Litovsk con gli Imperi centrali infiamma la guerra civile con i “Bianchi” controrivoluzionari, mentre il massiccio reclutamento nell’Armata Rossa svuota i campi ma non ferma le diserzioni a valanga, innescando ovunque le rivolte contadine e una feroce repressione governativa. Subito dopo il 7 novembre Lenin aveva annunciato il “decreto sulla pace”, con una sorta di appello universale: «Noi offriamo la pace a tutti i popoli sulla base di queste condizioni: nessuna annessione, nessuna indennità, diritto all’autodeterminazione».
Ora, il 24 febbraio 1918, scrive sulla Pravda: «Il predone ci ha sconfitti, schiacciati e umiliati, ma noi siamo capaci di reggere questo peso. Si tratta di firmare ora le condizioni della pace, o di firmare la condanna a morte del governo sovietico fra tre settimane».
L’accordo di Brest-Litovsk viene approvato, ma solo dopo la minaccia di dimissioni di Lenin: la fine della guerra è pagata dalla Russia con la perdita di Lituania, Curlandia, Estonia, Finlandia e Ucraina, con 56 milioni di abitanti in meno, un terzo delle ferrovie, il 53 per cento degli impianti industriali. Alle sommosse e alle proteste il governo risponde con la creazione della “Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione”.
È la Ceka, la polizia segreta bolscevica madre della Ghepeù prima, dell’Nkvd e del Kgb poi, guidata da Felix Dzerzinskij con il compito specifico di «scoprire e liquidare» in una repressione selvaggia ogni tentativo di controrivoluzione o sabotaggio, «da qualunque parte provenga». E infatti è un cekista di 39 anni l’orologiaio Jacob Jurovskij, che viene inviato nel luglio 1918 a Ekaterinburg come commissario nella Casa Ipat’ev dove sono prigionieri lo Zar, la Zarina Alix, lo zarevic Aleksej che ha 14 anni ed è malato, le figlie Olga, Tatiana, Maria, Anastasia e ciò che resta del seguito di Corte, quattro persone: il medico, la cameriera, il cuoco e un lacchè.
Così come sono cekisti i dieci prigionieri di guerra scelti per compiere l’esecuzione, e addestrati con le 14 pistole nuove che l’ultima sera Jurovskij introduce nel seminterrato, dove a mezzanotte del 16 i prigionieri vengono fatti scendere e poi schierati a ventaglio, come per una fotografia di gruppo. Pochi attimi. «I vostri tentano di liberarvi – dice Jurovskij – dobbiamo fucilarvi tutti».
Spara lui per primo allo Zar, sempre lui punta e colpisce alla testa Aleksej, tutt’intorno è una carneficina. Sfigurano i corpi con l’acido solforico, li tagliano a pezzi bruciandoli e li gettano nei buchi della terra, a Ganina Jama, nel tentativo di occultare ciò che è impossibile nascondere. Ha eseguito il crimine la periferia bolscevica, ma ha deciso tutto il centro. Trotzkij chiederà a Sverdlov, presidente del Comitato esecutivo, chi ha preso la decisione. «Noi, qui – è la risposta – Ilic pensava che non dovevamo lasciare ai Bianchi un simbolo attorno al quale raccogliersi».
Sarà lui, Sverdlov, a dare la notizia al governo la sera del 18, interrompendo solo per un attimo i lavori del Sovnarkom, il Consiglio dei commissari che stava esaminando un decreto in materia sanitaria: «Abbiamo ricevuto ora la notizia che a Ekaterinburg, per decisione del soviet regionale, Nicolaj è stato fucilato. Voleva evadere».
Interviene subito Lenin, chiudendo la questione: «Ora andiamo avanti con la lettura dello schema di legge clausola per clausola». Nient’altro.
Maksim Gorkij aveva avvertito il popolo russo alla fine del 1917: «Lenin, Trockij e i loro compagni si sono già intossicati con il putrido veleno del potere, e ciò si riflette nel loro scandaloso atteggiamento verso la libertà di parola e verso tutti quei diritti della persona per cui si è battuta la democrazia. Gli operai devono capire che Lenin sta conducendo un esperimento sulla loro pelle. Non è uno stregone onnipotente, ma un prestigiatore dal sangue freddo, che non risparmia né l’onore né la vita del proletariato. Ha tutte le qualità di un capo, compresa l’amoralità e un aristocratico atteggiamento spietato verso la vita della gente». Ma Lenin sembra non avere dubbi.
Davanti alla crisi del «comunismo di guerra» e alla carestia cambia programma, introducendo la Nep, la Nuova Politica Economica che fa fare un passo indietro allo Stato liberando quote di mercato all’iniziativa privata. Ma non cede sulla dittatura del proletariato che «per organizzare gli oppressi in classe dominante deve reprimere gli oppressori, gli sfruttatori, i capitalisti, spezzando con la forza la loro resistenza: ed è chiaro che dove c’è repressione, dove c’è violenza, non c’è libertà, non c’è democrazia». Anzi, la violenza va rivendicata come indispensabile: «Immaginarsi il socialismo su un vassoio non è possibile. Non una sola questione della lotta di classe è mai stata risolta se non con la violenza. Quando avviene da parte dei lavoratori, delle masse, ecco, noi siamo per la violenza. E a chi ci rimprovera e ci accusa di terrorismo, di dittatura, di scatenare la guerra civile, diciamo sì, noi abbiamo cominciato la guerra contro gli sfruttatori».
Questa è la Russia di gelo e di fuoco che accompagna la salita al potere dei bolscevichi e di quell’uomo venuto dall’esilio per rovesciare un impero, poi trascinato dal cambio d’epoca fino al vertice del governo sovietico, e tuttavia condannato comunque a difendersi e attaccare, come se portasse la tempesta sempre con sé.
Senza requie, nell’inganno piccolo-borghese di quel vestito scuro consumato con cui era tornato a San Pietroburgo per sovvertirla, la camicia bianca dal colletto floscio, la cravatta nera con piccoli disegni chiari, indistinguibili: sempre la stessa, nella fissità di un’icona sovversiva, fin dalla notte in cui tutto cambiò, il 7 novembre.
La moglie di Trotzkij, Natalja Sedova, lo vide muoversi in quelle ore come un sonnambulo in una stanza dello Smolnij piena di fumo. Sembrava che lui e Trotzkij dessero gli ordini dormendo, gli occhi arrossati, i colletti sporchi, i gesti automatici e quasi inconsapevoli. Tutti li guardavano. Ma solo Trotzkij, dopo aver controllato l’orologio alle due del mattino e dopo aver dato l’annuncio che tutti aspettavano – “è incominciata” – si accorse del gesto veloce ma inconfondibile di Lenin, chinato su se stesso: mentre la rivoluzione scoppiava, Vladimir Ilic stava facendosi il segno della croce