Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 26 Lunedì calendario

Tassi, la stretta Usa ha colpito le banche ma non l’economia

Il prossimo 16 marzo saranno due anni esatti da quando la Federal Reserve americana comunicò l’avvio della fase di restrizione monetaria. Dopo quel primo rialzo da 25 punti ne sono succeduti altri dieci e i tassi d’interesse sono passati dal range 0-0,25% all’attuale 5,25-5,50%. Con lo scopo di domare l’inflazione la Fed ha varato una stretta monetaria che non si vedeva dagli anni Ottanta. Da più parti veniva ipotizzato che questa decisa manovra avrebbe abbassato la crescita economica, fatto aumentare la disoccupazione e con ciò ridotto le pressioni di domanda sui prezzi dei beni al consumo.
Dopo due anni gli effetti sull’attività economica non si sono ancora manifestati in pieno, la disoccupazione rimane ai minimi storici, ma l’inflazione ha rallentato ugualmente in modo significativo, a gennaio per la prima volta dal 2021 sotto il 3%. Tra le varie ipotesi fatte due anni fa veniva comunemente accettata anche quella che il significativo rialzo dei tassi avrebbe migliorato la redditività del settore bancario americano, che proprio alla fine del 2021 aveva registrato gli utili maggiori di sempre, cresciuti di oltre il 20% rispetto a prima dell’arrivo della pandemia. Anche questa previsione si è però dimostrata infondata. Stando ai dati diffusi dal FDIC, il fondo di tutela dei depositi, le banche americane, pur continuando a fare enormi profitti, non hanno avuto nuovo slancio da questa fase di tassi elevati. Nel 2022 i loro utili complessivi sono scesi del 4% e le previsioni sono per un ulteriore calo del 3% per l’anno appena trascorso. Nonostante il recupero di questa prima parte dell’anno, anche l’indice di borsa del settore continua a segnalare prospettive non così brillanti, rimanendo sotto i valori di inizi 2022 di quasi il 10%, a fronte di un aumento dell’indice generale S&P 500 di circa 8 punti e di una performance molto positiva del settore bancario europeo cresciuto nello stesso periodo di oltre 25 punti (quello italiano di ben 85).
A frenare la redditività delle banche americane vi sono essenzialmente due fattori: un aumento dei margini di interesse molto contenuto e la crescita degli accantonamenti richiesti per fronteggiare i rischi di perdita sui crediti. La maggiore dinamicità del settore finanziario americano che ha istituzioni non bancarie, come i fondi monetari, in concorrenza per l’acquisizione di depositi di liquidità, ha fatto sì che i rendimenti sui depositi bancari crescessero quasi di pari passo rispetto all’incremento dei rendimenti sugli attivi, frenando l’aumento del margine d’interesse lucrato dalla banca. Cosa che invece non è successa in Eurozona, dove le banche dinanzi a un aumento dei tassi sulle attività hanno ritardato l’offerta di forme di deposito più vantaggiose per i clienti (e più costose per la banca). A questa limitata crescita del margine d’interesse, che secondo i dati FDIC è arrivato nel 2023 a 3,31%, rispetto al 2,95% del 2022, ma ancora sotto il 3,36% del 2019, si sono aggiunte le necessità di accantonamenti per i rischi sui crediti e, nell’ultimo trimestre del 2023, il contributo speciale al fondo di tutela dopo che gli interventi di salvataggio dello scorso anno ne hanno ridotto la dotazione.
L’onda lunga della turbolenza sulle banche regionali americane di un anno fa continua a farsi sentire a livello di settore e saranno da valutare gli effetti della fine della linea di prestiti di emergenza attivata dalla Fed che scadrà il prossimo 14 marzo. Ma quello che preoccupa di più sono i ritardi nel pagamento dei prestiti e le insolvenze, che non sono più confinati al settore dei prestiti all’immobiliare commerciale per il retail, quello dei centri commerciali, per intendersi, che è in crisi ormai da anni, ma interessa sempre più i prestiti alle famiglie sulle carte di credito, per l’acquisto di auto e alle imprese per l’immobiliare commerciale adibito a uffici.
Mentre le famiglie americane stanno attraversando la fase di rialzo dei tassi mantenendo una certa solidità nel pagamento dei mutui residenziali, le cui insolvenze restano inferiori al 1% del totale delle esposizioni (12,25 migliaia di miliardi di dollari), negli ultimi trimestri si registra un rapido peggioramento nella qualità dei prestiti per l’acquisto di auto, con ritardi oltre 30 giorni sull’8% dei prestiti, e per quelli legati alle carte di credito in cui, con tassi d’interesse medi intorno al 20%, circa uno su dieci dei 1.100 miliardi di dollari prestati è ormai in ritardo con il pagamento delle scadenze per più di 30 giorni. Questo si somma alla debolezza del settore dei mutui alle imprese per gli immobili commerciali, una debolezza che ormai da tempo riceve le prime pagine dei giornali, ma che fino a oggi non ha dato segni di un cedimento stile 2007-2008.
Certo le difficoltà esistono, soprattutto nel settore degli uffici, con aree tipo quella di San Francisco in cui più di un terzo degli uffici è vuoto e che a livello nazionale ha raggiunto tassi di deterioramento del credito tra il 6 e il 9%, ma nel complesso l’impatto per il settore bancario è ancora considerato gestibile. Sebbene l’ammontare di questi prestiti immobiliari abbia quasi raggiunto i 6.000 miliardi di dollari, meno del 20% riguarda uffici e centri commerciali. Inoltre, più della metà non è più in pancia alle banche americane. Una buona parte è stata infatti impacchettata in prodotti finanziari venduti in mezzo mondo, un’altra è stata acquisita da banche estere o da soggetti non bancari come le assicurazioni. In una nota dello scorso anno Goldman Sachs aveva stimato che se il tasso d’insolvenza su questi prestiti avesse raggiunto i livelli della crisi del 2007, l’impatto per i bilanci delle banche raggiungerebbe poco meno di 200 miliardi, spalmati su più anni, pari a meno del 10% del loro capitale di miglior qualità. Il resto ovviamente sarebbe sparso a livello internazionale.
Certo non vuol dire che tutte le banche, prese singolarmente, siano al riparo. Le più piccole sono quelle che hanno una maggiore esposizione sul settore dei mutui commerciali e l’impatto può essere devastante, come l’esperienza della NY Comunity bancorp di poche settimane fa è lì a ricordare. Ma per il momento, grazie a una crescita economica che ancora tiene, a una maggiore capitalizzazione delle banche e alla tenuta del settore dell’immobiliare residenziale, l’effetto provocato dalla restrizione monetaria resta confinato in un appiattimento dei profitti annui del settore bancario (pur sempre oltre 260 miliardi di dollari). In attesa che il cambio di rotta della Fed e il taglio dei tassi possa migliorare la qualità degli attivi e ridurre l’impatto sugli utili dei rischi sui crediti.