la Repubblica, 26 febbraio 2024
George Mosse, l’uomo che smascherò i fascismi
C’è un momento preciso, ci sono eventi e circostanze particolari allineando i quali di un regime politico si può dire che sia autoritario o stia scivolando verso forme di autoritarismo, lontano dalla democrazia liberale? Il fascismo è nato il 23 marzo 1919, a piazza San Sepolcro, oppure il 28 ottobre 1922, giorno della marcia su Roma, o ancora il 10 giugno 1924 con l’assassinio di Giacomo Matteotti? La storia funziona un po’ come uno specchio retrovisore. Chi la scrive dispone di date, eventi, protagonisti e può allineare tutto e ricostruire circostanze, contestualizzare atti politici e coglierne il significato alla luce delle conseguenze da essi prodotte. È attorno a queste domande che la storiografia si è arrovellata per decenni a cercare risposte, trovandole ogni volta in misura più o meno soddisfacente, ma sempre parziali.Fino al 1974, cioè mezzo secolo fa, quando George Lachmann Mosse, docente di storia nelle Università di Madison e di Gerusalemme, erede di una ricca famiglia di editori tedeschi, ha impresso una svolta dimostrando l’assoluta inutilità della fatica di cercare un certificato che rechi la data di nascita del “fascismo” e dei “fascismi” europei del Novecento. Il secolo che è sembrato “breve” a Hobsbawn ha avuto, nell’analisi di Mosse, una gestazione lunga, addirittura secolare. La nazionalizzazione delle masse, tradotto in Italia da Livia De Felice, uscito cinquant’anni fa, ha riscritto, collocandola in un orizzonte di interessi mai prima esplorati, la genesi e lo sviluppo del nazionalsocialismo.Le radici dei “fascismi” europei affondano dunque in quella parte del Settecento in cui la rousseauiana “volontà generale” ha finito per intorbidare le acque, faticosamente rese chiare da Montesquieu con la sua divisione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Mosse individua due fattori all’origine dei totalitarismi: la manipolazione della tradizione, attraverso il recupero di simboli, lessico, favole popolari e liturgie che laicamente si sovrappongono alla tradizione religiosa cristiana; l’esigenza di rompere tutti i filtri formali, procedurali e istituzionali che impediscono il rapporto diretto fra il capo e il popolo, fino allora impedito dalle élite in quanto custodi dei valori “borghesi”.Le origini del totalitarismo sono in parte comuni alle sue varianti fascista e comunista. Con alcune differenze significative: il fascismo, per esempio, puntava a recuperare la simbologia del potere della Roma antica, e la partecipazione delle masse alle adunanze “oceaniche” di Piazza Venezia, come pure l’inquadramento capillare della popolazione, per fasce di età, nelle manifestazioni pubbliche e negli eventi sportivi, erano i canali privilegiati per costruire il rapporto diretto fra il capo e il popolo. «Milioni di persone videro nelle tradizioni di cui parlava Mussolini – scrive Mosse – una possibilità di partecipazione politica più vitale e più significativa di quella offerta dall’idea “borghese” di democrazia parlamentare, e questo poté succedere solo perché esisteva una lunga tradizione rappresentativa non solo dei movimenti di massa nazionalisti, ma anche dei movimenti di massa dei lavoratori». Da questa forma di sedazione collettiva delle coscienze si arriva agevolmente all’annullamento dell’identità individuale.Obiettivo in tutto identico al comunismo, perseguito però con un percorso opposto: la rottura con la tradizione, con i suoi simboli e le sue liturgie, cioè con quelle che erano le catene che soggiogavano il popolo. Mosse ha indagato il totalitarismo con una ricchezza di strumenti mai prima impiegati:dall’antropologia, al teatro, alle organizzazioni sportive, dalla sociologia alla religione alla danza. Senza schematismi né pregiudizi che ne avrebbero infiacchito l’analisi, ci mette in guardia su un punto: guai a pensare che i “fascismi” non avessero matrice e tendenze democratiche. Mussolini e Hitler, ieri, al pari di Putin oggi, hanno distrutto la democrazia parlamentare per via democratica, attraverso libere elezioni.Quanto al livello di dispotismo via via sviluppato, esso è esattamente in rapporto al grado di adesione manifestato dalle masse, alla loro capacità di assorbimento di quei valori “borghesi” sui quali era stata costruita la Nazione. La massificazione di simboli e liturgie in cui riconoscersi ha poi completato il processo di nazionalizzazione. Sterilizzata la coscienza individuale e soffocata ogni capacità di giudizio critico, il potere autoritario si ritrova titolare degli strumenti necessari per reprimere ogni forma di dissenso sulla base di una legalità “di massa”.Perché, e qui Mosse devia e innova rispetto al giudizio fino ad allora diffuso, se è vero che il nazionalsocialismo ha anche usato il terrore, è altrettanto vero che il suo uso è stato limitato alla luce «della genuina popolarità della letteratura e dell’arte naziste».È possibile filtrare gli eventi del nostro tempo alla luce delle analisi di Mosse? Se è vero, come affermava Croce, che la storia è sempre storia al presente, nelle pagine del grande studioso ci sono indizi importanti seguendo i quali le turbolenze di questi anni trovano una loro collocazione storica e ci chiamano a nutrire una sana e robusta inquietudine per le sorti della democrazia parlamentare, sempre meno attrattiva e resa tale da quelle forze che vivono il Parlamento come un inutile ingombro, a memoria dell’aula “sorda e grigia” che Mussolini avrebbe voluto fare, e poi fece, “bivacco di manipoli”.La democrazia totalitaria, studiata nella sua genesi da Jacob Talmon, non è necessariamente il punto di approdo per l’Occidente. L’Europa, più degli Stati Uniti, è circondata da regimi autoritari, da “democrature”, secondo un neologismo orrifico, come può essere la Turchia di Erdogan e, sull’altra sponda del Mediterraneo, l’Egitto o la Tunisia. L’aggressione di Putin all’Ucraina ha risvegliato demoni che generazioni spensierate, venute su a pace e benessere, avevano frettolosamente sepolto nel pozzo della storia. Le stesse generazioni sfilano per le vie di Londra, Roma, Parigi, New York agitando bandiere palestinesi, invocano la fine del conflitto a Gaza e la condanna di Israele per “genocidio”. Confermando così che è la democrazia che si vergogna di se stessa la più grande minaccia alla democrazia.