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 2024  febbraio 25 Domenica calendario

Intervista a Stefano Reali. Parla di Shakespeare

Che poi “essere o non essere” è un dilemma che avvolge il teatro, l’esistenza, la filosofia, la linguistica, la società e alte riflessioni da decenni e secoli.
Eppure “essere o non essere” è un punto finale, o centrale, ma non iniziale; quello iniziale esce dal clima del teatro drammatico ed entra di diritto nelle atmosfere della spy story, del giallo, del complotto in costume, delle fughe e dei ritorni, dei sotterfugi e delle truffe. Delle minacce e del sesso. E parte da una questione: a scrivere I due gentiluomini di Verona, Romeo e Giulietta o Enrico VI è stato Shakespeare o non è stato Shakespeare?
Questo è il dilemma.
“E chi ha affrontato tale domanda ne ha pagato le conseguenze”.
Stefano Reali, regista e sceneggiatore (“ma tra scrivere e girare mi emoziona più scrivere”), lo ha affrontato.
Ha studiato per anni una quantità incredibile di testi (“potevo pubblicare 48 pagine di bibliografia”). Ha scavato, confrontato. Fino a pubblicare un libro, Shakespeare Aenigma, 800 e passa pagine, tra Dan Brown e Piero Angela, con un pizzico di Indiana Jones, in cui racconta la storia di John Florio, figlio di un pastore protestante cresciuto in Italia, da lui (e non solo) considerato il reale autore di gran parte dei successi shakespeariani. “Ogni parola scritta è documentata. E tutto questo nasce da una questione posta da Gigi Proietti…”.
Quale?
Alla fine degli anni 70 mi iscrivo al Centro sperimentale di cinematografia e grazie alla scuola incontro Proietti. È stato lui a farmi conoscere Shakespeare; proprio Gigi ripeteva: “Ma come può aver scritto tutto questo? Neanche quattro persone contemporaneamente sarebbero state in grado”.
Dubbio amletico.
La questione è chi e quanti erano.
Affrontiamola.
È fondamentale il contesto: Shakespeare si è inserito in mezzo a una serie di coincidenze irripetibili.
Quali?
Inizialmente l’Inquisizione: spadroneggiava, e l’Inghilterra era l’unico Paese in cui si poteva pagare un biglietto e assistere a una rappresentazione; Londra era un concentrato di teatri, ogni sera cambiavano gli spettacoli, solo i grandissimi successi ottenevano la replica. C’era fame di trame, di copioni.
Ma…?
All’inglese di quegli anni mancavano i vocaboli, ne avevano a disposizione circa 8.000, e non possedevano né una lingua poetica né la letteratura.
Le altre coincidenze?
Elisabetta sul trono, la nascita della propaganda e l’esigenza di creare una lingua per la propaganda stessa; (sorride, torna a Proietti) anni fa porto in teatro uno spettacolo in cui inizio a porre la “questione Shakespeare”. Gigi viene a vederlo e poi mi invita a rappresentarlo al suo Globe. Io stupito. “Ma è come se portassi a San Pietro uno che sostiene la non esistenza di Dio”. “No, va bene: bisogna parlarne…”.
Il dilemma era in Proietti.
Di tutta l’opera shakespeariana sono 19 i drammi ambientati in Italia, all’interno dei quali l’autore ha infilato una sfilza incredibile di dettagli toponomastici, di evoluzioni linguistiche, di descrizioni di luoghi; in Romeo e Giulietta racconta il tragitto tra la casa dove vive e la chiesa del matrimonio; lo stesso per il Lungarno di Tutto è bene quel che finisce bene; o ne Il racconto d’Inverno dove si parla del viaggio da Palermo ad Atene, “21 giorni all’andata e 23 al ritorno”…
Risultato?
È come se il vero autore avesse firmato le opere in maniera criptata; (ci pensa) ne I due gentiluomini di Verona il protagonista si imbarca sull’Adige per raggiungere Milano: ai tempi del Rinascimento le due città erano collegate attraverso i Navigli; aggiungo: nell’Otello c’è una parte, quasi sempre tagliata, con la descrizione della battaglia dei veneziani per riprendersi Cipro, compresa la descrizione dei bastioni di Famagosta.
E…?
Uno potrebbe pensare: a cosa serve? A dimostrare che solo uno che c’è stato poteva scrivere in maniera così dettagliata quei luoghi.
Ha proprio studiato…
Ci ho passato trent’anni sui libri e ho studiato quello che altri hanno prodotto; il problema è che nel momento in cui ho iniziato ad approfondire, ho trovato continui colpi di scena.
Altro che Dan Brown.
Se all’inizio qualcuno mi avesse detto “Giordano Bruno insegnava Filosofia a Oxford, era un pedofilo, superdotato, che puntava a scopare tutti, ma era pure l’uomo più intelligente al mondo, conteso dai regnanti, e aveva come interprete John Florio”, forse non ci avrei creduto.
John Florio, erudito e poliglotta.
Un cervello raro, uno che a 14 anni già frequentava l’Università di Tubinga; uno in grado di parlare italiano e inglese, poi conosceva il francese, lo spagnolo e il tedesco.
Pure il Greco e il Latino…
Erano la base, e suo padre era stato il precettore della Regina Elisabetta, per questo la Regina conosceva bene l’italiano; (sorride) gli inglesi erano pazzi della nostra lingua, amavano anche le parolacce, loro possedevano solo il fuck, mentre impazzivano per i sonetti lussuriosi dell’Aretino, dove si parlava di sodomia con vocaboli spinti.
Il sesso è centrale…
Chiunque aveva l’amante, chiunque aveva il ragazzetto. Però la situazione doveva restare privata.
Anche il padre di Florio…
Era un frate riformatore, celebre erudito, in fuga perché ricercato dall’Inquisizione e per tanti anni si è nascosto proprio in Italia.
Comunque la questione Florio è antica…
Ha più di un secolo, i primi ad affrontarla sono stati i britannici come Frances Amelia Yates, grande studiosa di Bruno, che già nel 1934 ha pubblicato un libro dedicato a Florio. Da quella pubblicazione è stata vista con sospetto in tutte le scuole del Regno; (pausa) parliamo di un’accademica riconosciuta, una vicina al Nobel.
Argomento intoccabile…
Nell’Enciclopedia Britannica del 1890 a Florio sono dedicate sei pagine; nell’edizione successiva appena mezza.
Reazioni al suo lavoro?
Masolino D’Amico, anglista di fama, ha affermato: “Non sono d’accordo su niente, ma è complicato obiettare”; (pausa) la questione andrebbe affrontata da uno storico, da chi va in cerca delle fonti, e non dai letterati.
Dove sono questi documenti?
Sono pubblici; (ci riflette) la storia è quella di un ragazzo, grandissimo poeta, che non vuole arrendersi a una realtà complicata; allora capisce che gli basta la sua sapienza e la capacità di rubare tutte le novelle del tempo, scritte da Bandello o da Aretino, e trasformarle in drammi. Ciò con grande sapienza e padronanza del verso, però non le può firmare, perché è anche il precettore dei rampolli della casa Reale; (pausa) è stato fondamentale Bruno.
Lo ha spinto.
Ne Il candelaio (opera di Bruno, ndr) c’è già la questione; è lui ad avergli anche consigliato di mischiare le trame…
Tradotto?
Di scriverne tre: una per il popolo, una per i borghesi e una alta, filosofica, per i patrizi. Così ogni parte del pubblico avrebbe trovato ciò che desiderava e scoperto altro in grado di stupirla. E questo è accaduto, però all’inizio lo stesso Florio non ne era consapevole. E qui entra la bravura di Shakespeare.
Come?
Era un vero imprenditore teatrale e ha creato il primo team di autori, con lui a capo, fino a quando la stessa Regina Elisabetta ne ha capito le potenzialità, la possibilità di avere finalmente il primo poeta nazionale in grado di non sfigurare con italiani e francesi.
La Regina conosceva la verità.
Tutti sapevano; il funerale di Shakespeare è passato sotto traccia; per altri poeti molto meno importanti c’è stato il lutto nazionale; (sorride) Shakespeare prestava i soldi a strozzo, era un attore mediocre non in grado di leggere.
Un disastro.
Di ogni attore o autore del tempo ci sono arrivati autografi, lettere, prefazioni; di Shakespeare ci sono solo sei firme, pure una diversa dall’altra e su contratti commerciali…
E Florio?
Fu pagato bene, ma assisteva alla nascita di un astro grazie a lui; per questo aveva iniziato a inserire indizi. I grandi eroi skakespeariani sono tutti uomini irrisolti, non c’è n’è uno, tra i buoni, che dice “devo fare questo e lo farò”. Invece hanno dubbi, attese. E si vergognano del loro non coraggio; gli eroi veri sono i cattivi.
In sostanza?
È come se avesse messo in scena la sua difficoltà; (pausa) ripeto: in quel periodo nasce pure la propaganda.
Cioè?
Enrico VIII è stato uno dei maggiori assassini e criminali della storia ed Elisabetta era sua figlia; a Elisabetta serviva una narrazione differente. Per questo chiama Florio e gli pone il problema…
E lui?
Non falsifica la verità, crea un artificio: s’inventa il Riccardo III, lo fa diventare peggio di Enrico VIII, eppure è stato l’ultimo Re inglese a guidare l’esercito in battaglia, morto perché dopo aver vinto è stato assassinato dai suoi, pugnalato alle spalle proprio dai Tudor.
Bell’ambiente.
Nel regno di Elisabetta imperversavano i proto-massoni e gli esoterici e tutto questo compare nel Faust di Marlowe; insomma, Florio ha inventato una narrazione propagandistica e da uomo di corte conosceva alla perfezione le dinamiche reali.
Torniamo ai documenti…
Al tempo alcuni drammaturghi anglosassoni diventarono gelosi del successo di Florio tanto da scriverne; non dimentichiamo che Florio era un immigrato dall’Italia, ma in grado di reinventare l’inglese, in grado di scrivere il primo dizionario di italiano-inglese nel 1578; vent’anni dopo ne ha pubblicato un altro con tutti i neologismi.
Che scrivevano?
Nei poemetti lo insultavano nelle prefazioni, ma non in maniera esplicita. E Shakespeare non ha mai risposto, ha replicato solo Florio; Florio era un uomo talmente alto da partecipare pure alla celeberrima “Cena delle Ceneri”; eppure a un certo punto ha avuto paura per la sua vita.
Nel libro racconta di un incontro tra Florio e Cervantes…
Si sono probabilmente conosciuti a Messina nel 1571, con Cervantes ricoverato perché gli avevano amputato una mano dopo la battaglia di Lepanto; la storia di Cervantes è molto più appassionante di ogni sua opera, è il romanzo mai scritto, ma la sua omosessualità ha fermato per decenni gli spagnoli.
Gli anglisti diranno: “Ora è arrivato Stefano Reali a spiegarci la vita”…
Sono andato ad alcuni convegni internazionali e ho posto alcune domande.
Risultato?
Mi hanno ignorato.
Quindi, Shakespeare, chi era?
Un geniale imprenditore teatrale