la Repubblica, 25 febbraio 2024
Il viaggio in Italia di Stendhal
Dovette pure ammetterlo, a denti stretti: «…giacché infine, viaggio non per conoscere l’Italia, ma per procurarmi piacere». Ma bisogna cercarla bene, questa fugace confessione di Stendhal, nelle trecento pagine diRoma, Napoli e Firenze, suo esordio narrativo ancorché diaristico, primo libro firmato da Marie-Henri Beyle col celebre pseudonimo, che torna in edizione italiana (Humboldt Books) nella storica traduzione di Bruno Schacherl, a quasi duecent’anni dalla sua prima edizione. L’occasione giusta per chiederci: ma questo capolavoro della letteratura di viaggio, di quale viaggio ci parlò? In quale terra?
L’Italia, certamente. «Dio, come ho fatto bene a venire in Italia!». La prima volta ci andò, giovanissimo e ardente come un Fabrizio del Dongo, da entusiasta soldato napoleonico a cui le cannonate non impedirono di innamorarsi della musica del Cimarosa. Poi tornò poco più che trentenne, da sconfitto ed esule di lusso, nel 1816, viaggiatore per quattro mesi lungo la penisola, prima di stabilirsi per sette anni a Milano. Di quel viaggio editò un resoconto già nel 1817, ma laEdinburgh Reviewglielo stroncò come “frivolo”, e lui lo riscrisse daccapo e lo ripubblicò nel 1826, continuando tuttavia a considerarlo «un brutto libro». Fu invece una rivoluzione nel genere plurisecolare dei manuali da Grand Tour, grazie alla curiosità impertinente delle sue osservazioni sociologiche e antropologiche, e alla disinvoltura di uno stile brillante, a tratti sfrontato, ben diverso dalla «precisione e concisione da codice civile» che Stendhal raccomanderà a sé stesso nella maturità.
Di che genere era, dunque, il “piacere” di cui «l’adorabile Stendhal» (così Sciascia) fu ghiotto nel suo viaggio «alla rincorsa della felicità» (viaggio che toccò molte più città di quelle citate nel titolo: una sosta importante a Bologna, e una puntata in Calabria)?
La musica fu il suo bottino più prelibato: la sera del 24 settembre, sbarcato a Milano alle sette di sera, si fiondò alla Scala senza neppure cambiarsi d’abito; ma nel foyer di quel teatro, camera d’eco della città, raccolse poi di sera in sera notizie e malizie, amori e dissapori, spiò le tresche di gentildonne e “vagheggini”, signoroni e “cojononi”, e non tenne nulla per sé. L’arte, poi, ovviamente. Ma quella sindrome che porterà il suo nome, quella svenevolezza che lo coglie a Firenze al cospetto di cotanta bellezza, quell’ «emozione così profonda», che «la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere», quant’era psicosomatica e quanto ostentata? Poche settimane dopo, a Roma, assistendo alla messa del papa in Cappella Sistina, tributato un omaggio rapido e senza mancamenti alle «maschie bellezze della volta», si mette a osservare con meticolosa ferocia quei cardinali che gli sembrano «dei bravi parroci di campagna; molti hanno un aspetto malaticcio…». È semmai l’Italia tutta quanta, l’Italia in sé, che lo affascina, quasi fosse un organismo animale, e lui il suo etologo. Ma non più l’Italia di Michelangelo, bensì l’Italia decaduta, dove «un popolo di giganti e di eroi è morto nel 1530 ed è stato rimpiazzato da un popolo di pigmei». Un’Italia di forti passioni rustiche e di mediocrità borghesi, abitata da un «popolo disgraziato, polverizzato dall’odio», rassegnata vittima del “pretismo”.
Perché la sceglie, allora? Ovvio, per fuggire dalla Francia, la sua patria, ridotta ancora peggio, per ragioni opposte: ossia dal cinismo, dal machiavellismo, dall’opportunismo. Ma nell’Europa delle restaurazioni, perché proprio l’Italia dei mille despoti, e non magari la coraggiosa Grecia di Byron? Perché quell’Italia primordiale e istintiva era stata quasi redenta alla civiltà proprio dai francesi: «L’amministrazione imperiale, che spesso in Francia soffocava i Lumi, in Italia urtava soltanto le assurdità». Stendhal, bonapartista per quanto disincantato, pensa addirittura che Napoleone abbia dato qui il meglio di sé: «Napoleone venne a svegliare l’Italia con le cannonate del ponte di Lodi, e poi a sradicare le abitudini antisociali col suo governo». A Milano, la Milano di Manzoni, Pellico, Monti, che sceglierà come sua patria del cuore (si farà seppellire a Montparnasse sotto una lapide che, in italiano, lo proclama “Milanese”), riconosce ancora quell’impronta.
Via via che scende verso il sud, molto meno. Già a Firenze Stendhal evita di «abbassare i miei sguardi sui piccoli uomini opachi che passano per quelle strade sublimi». Per le vie di Roma «domina un odore di cavoli marci». Più avanti, ancora peggio: «La civilizzazione finisce al Tevere». Ride dell’idea che a Napoli, in quell’atmosfera “africana”, un filosofo possa mai elaborare «una spiegazione metafisica dell’uomo e della natura» (cioè quel che farà proprio a Napoli, di lì a pochi anni, Giacomo Leopardi). Insomma, per Stendhal «la Lombardia è un secolo avanti a Roma e a Napoli, e almeno trent’anni avanti a Firenze», mentre «quattordici annidi dispotismo di un uomo di genio hanno fatto di Milano la capitale intellettuale d’Italia»: sarebbe interessante approfondire queste radici filo- napoleoniche dell’idiosincrasia leghista. L’Italia di Stendhal è osservata da nord verso sud, dall’alto verso il basso, in tutti i sensi.
Con sapiente malizia editoriale, in appendice di questa nuova edizione, come unico commento critico contemporaneo, ecco un sedicesimo di sole immagini, le fotografie di Delfino Sisto Legnani all’Italia in Miniatura, il parco tematico romagnolo che già appassionò Luigi Ghirri: un Paese di monumenti tascabili, di glorie ormai miniaturizzate.
Ma l’Italia, per Stendhal, ha un sapore ancora più profondo: quello del latte materno. Mamma Henriette parlava italiano e declamava a memoria la Commedia dantesca. Henri la perdette a sette anni. Cosa cercava dunque nel grande grembo di «questo bel paese» dove «altro non s’ha da fare che l’amore»? Nella sua insuperabile introduzione all’edizione italiana del 1960, Carlo Levi sostiene che «l’Italia di Stendhal è inventata e perciò assolutamente vera». Di una verità, molto più che storica, interiore, forse addirittura psicoanalitica. Se la Francia è per lui il Padre degenerato e rinnegato, e l’Italia la Madre agognata, be’, quello del “signor me stesso” in Italia non è che una versione dell’eterno viaggio di Edipo.
“Un popolo di giganti e di eroi rimpiazzato da un popolo di pigmei, disgraziato, polverizzato dall’odio, rassegnata vittima del pretismo”