La Lettura, 25 febbraio 2024
Biografia di Armando Diaz
«Addò sta stu cazzo ’e Vittorio Veneto?» Pare che l’abbia detto il generale Armando Diaz, morto a Roma il 29 febbraio 1928, un giorno di autunno del 1918, davanti alla grande mappa del fronte appesa su una parete dell’Ufficio operazioni. A raccontarlo sarebbe stato molti anni dopo Ferruccio Parri, all’epoca maggiore di complemento in servizio al Comando supremo. Probabilmente esagerava. Era vero che i vertici del Regio Esercito erano occupati da una vasta schiera di rodomonti, ricchi di decorazioni e poveri di cultura (macchiette come il futuro quadrumviro Emilio De Bono, incapace di scrivere in un italiano decente, erano una sconfortante consuetudine). Ma era falso che Armando Diaz fosse uno di loro. Se nella storia dell’esercito italiano c’è stato un solido tecnocrate, capace di condurre un esercito di massa impegnato in un conflitto totale, quello è stato proprio Diaz.
La sua biografia aiuta a capire perché. Era nato nel 1861. Apparteneva alla prima generazione di ufficiali italiani, cresciuti senza remore localistiche e in un momento in cui buone competenze tecniche e scientifiche erano essenziali per fare carriera. Proveniva da una famiglia di tradizioni militari ma, a differenza del suo predecessore Luigi Cadorna, non si sentiva investito da nessuna missione storica. Cadorna era tormentato dall’idea di sfigurare nei confronti del padre, il conquistatore di Roma del 1870, ed era convinto che il destino gli avesse affidato la sorte di fare grande l’Italia: un compito sacro per assolvere il quale avrebbe volentieri sacrificato tutte le sue armate. Diaz era privo di queste visioni apocalittiche. Durante la campagna di Libia aveva conosciuto il vero volto della battaglia, fatto di sangue e morte, e aveva deciso che il benessere dei cittadini-soldato che comandava doveva essere la priorità. Non era una questione di democrazia o buon cuore. Diaz era un ufficiale del XIX secolo, e non assomigliava per nulla allo stereotipo del partenopeo indulgente e mattacchione a cui ogni tanto lo si vorrebbe ridurre. Ma trattava i dipendenti come uomini, e non come oggetti o sudditi: una differenza con i vecchi generali che i soldati percepivano, e ricambiavano con devozione. La sua lunga esperienza negli uffici di stato maggiore ne aveva fatto un eccellente pianificatore, ma anche un vero leader moderno: un manager della guerra, capace di delegare e buon organizzatore. Metterlo a capo dell’esercito dopo la disfatta di Caporetto, quando bisognava non solo ricostruire ma anche infondere fiducia, fu un piccolo miracolo, per un Paese dove l’uomo giusto è raramente al posto giusto.
Finita la guerra, Diaz si tenne alla larga da complotti e tentazioni di potere, anche perché desiderava ritirarsi a vita privata (sul Carso aveva contratto la malattia che l’avrebbe portato alla morte). Ma rivendicò per sé il ruolo di custode dell’autonomia delle Forze armate, e dei larghi privilegi che i militari avevano conquistato con la guerra. Un compito che lo portò ad appoggiare la conquista del potere da parte del fascismo. Si dice che la notte del 28 ottobre 1922, mentre le squadre marciavano verso Roma, Vittorio Emanuele III gli abbia chiesto cosa avrebbe fatto l’esercito se avesse ricevuto l’ordine di usare la forza per difendere le istituzioni legittime. «Maestà», pare abbia risposto Diaz «l’esercito farà il suo dovere, però sarebbe meglio non metterlo alla prova». Forse la frase fu davvero pronunciata, più probabilmente no. Ma non importa. Diaz fu una figura di garanzia decisiva per il successo di Mussolini. Quando, il 4 novembre 1922, il nuovo capo del governo fece la sua prima uscita pubblica, all’Altare della Patria, il duca della Vittoria era al suo fianco, fedele ministro e uomo immagine. Era lui che portava in dote al fascismo l’Italia di Vittorio Veneto.