La Lettura, 24 febbraio 2024
Scott Turow parla dei candidati alla Casa Bianca
Che cos’è la politica? «Show business per persone brutte». Questo graffio del presentatore americano Jay Leno non invecchia mai. Il dibattito legato alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti (martedì 5 novembre) si porta addosso un marchio sgradevole. C’è un candidato, il presidente Joe Biden, 81 anni, bollato da un procuratore speciale come «un uomo anziano dalla scarsa memoria», che non ricorda «quando è stato vicepresidente o quando è morto suo figlio Beau»; «una macchina di gaffe» secondo avversari e commentatori politici. C’è un altro candidato, l’ex presidente Donald Trump, 77 anni, invischiato in quattro processi penali, uno dei quali comincerà a breve, il 25 marzo a Manhattan, per il pagamento, nascosto sotto la voce «spese legali», della pornostar Stormy Daniels, affinché durante la campagna del 2016 non parlasse dei rapporti sessuali con il tycoon.
Il mese scorso, durante un evento in Iowa, Trump ha preso in giro Biden per la sua balbuzie. La settimana scorsa ha lanciato una linea di costosissime sneaker dorate per pagarsi le condanne civili (a oggi frode fiscale e indennizzo per calunnie legate ad abusi sessuali alla scrittrice E. Jean Carroll). Ma Trump, che i libri di storia ricorderanno per il berretto rosso con la scritta Make America Great Again (Maga) , non è meno disorientato di Joe: confonde la candidata repubblicana Nikki Haley con l’ex speaker della Camera Nancy Pelosi, il primo ministro ungherese Viktor Orbán con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Ecco la grande ironia americana: il Paese che odia la morte e combatte la vecchiaia potrebbe trovarsi a scegliere tra due dinosauri.
Se questo show business potesse essere associato a un genere letterario, sarebbe sicuramente un thriller. Il finale, tra otto mesi, è da brividi. Scott Turow lo annunciò su queste pagine, quattro anni fa: «Trump tornerà nel 2024». Ecco perché «la Lettura» ha invitato il maestro del legal thriller a commentare le prossime elezioni e il rito sacro delle primarie. Turow, 74 anni, è una leggenda delle lettere americane: Presunto innocente (1987) è la pietra su cui poggia il genere processuale, un’industria da centinaia di milioni di copie. L’avvocato diventato romanziere – sta scrivendo un nuovo romanzo che ha come protagonista proprio il Rusty Sabich di Presunto innocente —, risponde dal sud della Florida.
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca è una possibilità tutt’altro che remota. Per il 71% delle persone interrogate da un sondaggio del «New York Times» lo scorso autunno, Biden è «troppo anziano» per fare il presidente. Lei lo scrisse su queste pagine quattro anni fa, pochi giorni dopo la sconfitta di Trump: tornerà.
«Era difficile da credere. Ma basta guardare i sondaggi per farsi un’idea di che cosa stia succedendo. Nel 2016 dissi a mia moglie Adriane, anzi glielo giurai, che il popolo americano non sarebbe mai stato così stupido da eleggere uno come Donald Trump. Mi sbagliavo di grosso. Adesso possiamo dire senza esitazione che Trump rimane una figura unica nella storia della politica americana. Non c’è nessuno che sia mai stato così apertamente screditato e che, nonostante tutto, possa continuare a contare su legioni di seguaci. È davvero difficile fare previsioni. Ma guardando i sondaggi rimane una chiara possibilità che Trump possa vincere di nuovo. Mi spezzerebbe il cuore, ma potrebbe succedere».
Le elezioni americane sono un thriller. Senza esagerare, possiamo affermare che dalla scelta del candidato alla presidenza dipendono i destini del mondo. Se la sfida tra Joe Biden e Donald Trump fosse un romanzo, come se lo immaginerebbe?
«Questa storia ha il potenziale per incredibili colpi di scena. La trama si arricchisce giorno dopo giorno: sappiamo che il 25 marzo Trump andrà a processo a Manhattan per il caso dei pagamenti alla pornostar Stormy Daniels e di una modella di “Playboy”. La maggior parte degli esperti in materia legale ritiene che questo sia un caso debole. Non sono d’accordo. È bizzarro che tu possa dire a una giuria: guardate, ho pagato una pornostar. Va benissimo, che problema c’è? Penso che sia un caso con fondamenta abbastanza forti. Ma torniamo alla trama del thriller: abbiamo un ex presidente-candidato che sarà sotto processo almeno una volta quest’anno, prima di novembre, forse due, per reati gravi. Sappiamo come vanno le cose con Trump. Se verrà condannato a New York, rigetterà le accuse e ridicolizzerà i giudici. Incolperà Joe Biden, che non ha assolutamente alcun controllo sull’ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan. Farà appello e sarà sicuro di vincere. La possibilità che venga condannato prima della convention repubblicana, a luglio a Milwaukee, sicuramente prima delle elezioni, offrirà molti colpi di scena a questa storia, superando l’orientamento attuale dei sondaggi. Abbiamo due candidati anziani, che hanno dimostrato lacune e vuoti di memoria abbastanza preoccupanti. Trump ha confuso la sua avversaria per la nomination Nikki Haley con Nancy Pelosi. Tra tutte le gaffe che ho sentito recentemente, ho pensato che questa fosse la più sconcertante. Ha confuso due donne che odia in maniera viscerale, per lui sono diventate una cosa sola: il tempo e lo spazio sono mischiati in una zona grigia nella mente del tycoon. E chissà quante gaffe sentiremo ancora. L’altro colpo di scena potrebbe arrivare dallo stato di salute. Trump ingurgita cheeseburger e non fa esercizio fisico. È a forte rischio di attacco cardiaco. Biden è più in forma, basta vederli l’uno accanto all’altro per farsi un’idea, ma non è meno vulnerabile. Ha un’andatura impacciata. Incespica anche nei discorsi, si dimentica date e fatti. Se dovesse succedere loro qualcosa – e, ripeto, non è un’eventualità remota se osserviamo le loro condizioni fisiche – né i democratici né i repubblicani possono permettersi di rischiare la sorte. Se Trump venisse condannato sarebbe impresentabile. In questo romanzo ci sono ancora molti colpi di scena».
Che finale immagina?
«Biden potrebbe sbarazzarsi di Kamala Harris e candidarsi con Nikki Haley, così la strada verso la vittoria sarebbe spianata. È la tesi di un mio amico. Haley diventerebbe la “presidente in attesa” per il 2028 e soddisferebbe una vasta cerchia di americani che non vogliono vedere Donald Trump di nuovo a Washington. Se vuole un finale pazzo, eccone uno».
L’immigrazione è un tema caldissimo. Gli attraversamenti illegali al confine con il Messico sono aumentati in maniera esponenziale: da 73.944 nel dicembre 2020 a oltre 300 mila alla fine del 2023. Quali sono stati gli errori più grandi di Joe Biden?
«L’Afghanistan. Ma il problema di fondo sono i democratici, pessimi comunicatori. Biden non ha mai detto: “Guardate, mi sono impantanato in Medio Oriente perché Donald Trump ha stretto un patto con i talebani nel febbraio 2020 a Doha, affinché le nostre truppe lasciassero la regione l’anno successivo. Io non ho mai stretto accordi con i talebani. Anzi, dissi a Obama di non mandare ulteriori truppe in Afghanistan quando ero vicepresidente. È stato Trump a parlare con i talebani, e so che se avessimo rinnegato quegli accordi, avremmo cominciato un’altra guerra”. L’Afghanistan è stato il primo errore. La precipitosa ritirata del 2021 è stata uno spettacolo indegno. Frutto tuttavia dell’accordo di Trump. E poi, certo, c’è il tema spinoso dell’immigrazione, un altro disastro, cavalcato con furbizia dai repubblicani».
Il grande punto interrogativo è legato all’età dell’attuale presidente. Pensa che Biden sia troppo anziano per un secondo, ipotetico, mandato?
«Senza dubbio. Anche se mi è capitato di parlare con tante persone che hanno collaborato con Biden e nessuna di loro dubita della sua prontezza. Mi sono confrontato recentemente con un repubblicano dell’Iowa e mi ha rassicurato riguardo alla salute del presidente. Mi ha detto che è in forma, ma dà l’impressione di essere debole. In effetti lo guardi, lo ascolti, e sembra davvero molto debole. Sembra un vecchio fragile. A 80 anni si può fare tutto, tranne il presidente degli Stati Uniti. Il lavoro più difficile del mondo. In America le probabilità che qualcuno con più di 80 anni non sopravviva altri quattro anni sono una su tre. È un rischio troppo alto per una democrazia. In democrazia scegli il tuo leader e non hai un’altra possibilità per quattro anni, almeno nel nostro caso. Sì, c’è un vicepresidente che prenderebbe il timone in caso di un evento tragico, ma nessuno pensa più di tanto a questa soluzione. Praticamente abbiamo una possibilità su tre che la nostra democrazia rimanga senza il suo leader prescelto. È un rischio semplicemente troppo alto. Le probabilità non sono più rosee con Trump. Sono uomini troppo anziani per affrontare questa sfida. E lo dice uno che sta per compiere 75 anni. Anche se le mie probabilità di vivere altri quattro anni sono migliori delle loro, non penserei mai di candidarmi alla presidenza degli Stati Uniti. Lo sforzo fisico è impressionante. La giornata tipo di un presidente oggi è andare in Israele o in Ucraina, scendere dall’aereo, tenere un discorso, tornare sull’aereo, farsi altre dieci ore di volo, magari per affrontare un’altra crisi mondiale o un’emergenza domestica. Il tuo staff ti sveglia nel cuore della notte per passarti al telefono Netanyahu o un altro leader del Medio Oriente. Non dubito che Biden abbia il rigore che serve a un presidente. Ma questa resistenza a mollare forse deriva dall’egocentrismo che contraddistingue gli anziani. Continuano a usare la macchina anche se gli viene consigliato di smettere per la loro incolumità e per quella degli altri. Pretendono che nulla cambi, anche se il loro corpo non è più lo stesso. Il problema ulteriore di Biden si chiama Kamala Harris: oggi è estremamente impopolare, quattro anni fa era considerata la sua erede. Rimane tuttavia una figura cruciale, perché incarna due sfere importanti per il Partito democratico, gli afroamericani e le donne, due mondi che non bisogna alienarsi. Kamala è stata la prima persona che Biden ha delegato per andare al confine e risolvere il problema dell’immigrazione. E sappiamo com’è andata: un disastro. Arrivò in Guatemala e disse ai migranti: “Non venite”, scatenando sdegno tra i progressisti».
La donna che fa più paura ai repubblicani al momento è un’altra: la cantante Taylor Swift. Oltre quattro milioni di americani hanno comprato i biglietti dei suoi concerti l’anno scorso, su Instagram ha quasi 300 milioni di fan...
«Mi chiedo dove il popolo Maga possa arrivare. Taylor Swift è la cantante più popolare al mondo, oltre che una donna d’affari eccezionale. Una pensatrice indipendente. I repubblicani hanno paura di lei perché può spingere gli elettori verso Biden. Il suo fidanzato, Travis Kelce, tight end dei Kansas City Chiefs che hanno appena vinto il Super Bowl di football americano, era già uno spauracchio della destra quando incoraggiava le persone a vaccinarsi. Ci sono spot televisivi nei quali Kelce mostra i massicci bicipiti con il cerotto dove gli è stato iniettato il vaccino anti-Covid. Lui e Taylor Swift dimostrano l’estremismo cieco della destra. In molti pensano che Trump sia una forza distruttiva, anche a destra. Il problema è che credono di non avere alternative».
Trump si considera un perseguitato (si è paragonato a Navalny). I processi lo hanno aiutato a riacquisire parte della popolarità dopo la sconfitta alle presidenziali del 2020?
«È la sua narrazione. Lui dice: “Sono una vittima, sempre io. Tutte queste persone, questi magistrati, sono cattivi con me. Non merito questo. È la macchina del fango dei democratici”. Ma i democratici non c’entrano nulla nel processo che comincia il 25 marzo. C’è un’ampia fetta di americani che si sente anch’essa vittima di questo “sistema”. Se la prendono con le cosiddette élite, che sono, diciamolo francamente, le persone istruite. Questa fetta di americani pensa che le élite non si preoccupino di loro, che non diano valore alle loro vite. Hillary Clinton bollò i sostenitori di Trump come “deplorevoli”, anche se la sua frase venne decontestualizzata. Penso che molti di loro siano offuscati dall’ignoranza. Io e mia moglie Adriane abbiamo una casa nella zona rurale del Wisconsin. Un giorno, mentre lei aspettava di ritirare una pizza da asporto, si è messa ad ascoltare una conversazione tra un gruppo di operai, che discutevano di come il vaccino anti-Covid modifichi il tuo Dna, trasformandoti in un automa governativo. Il problema è che queste persone non hanno sufficiente istruzione per poter affrontare un argomento del genere; in questo Paese l’educazione scolastica è a un livello basso. Molte persone non hanno neanche idea di che cosa sia il Dna, però pensano che il governo lo modifichi per poterle controllare. C’è un abisso tra le persone istruite e quelle meno istruite. Qui si consuma lo scontro politico».
Perché le gaffe di Biden hanno maggiore risonanza di quelle, non meno imbarazzanti, di Trump?
«Ha a che fare con il divario di comunicazione tra democratici e repubblicani su cui riflettevo prima. I repubblicani generalmente parlano attraverso una sola voce, Fox News. La strategia che hanno seguito dal giorno dell’inaugurazione è dipingere Biden come un vecchio sciocco, attraverso un martellamento quotidiano. Ogni gaffe di Biden non ha fatto altro che confermare quella narrazione. È indubbio che lui sia stato e continui a essere una macchina di gaffe. È stato così per gran parte della sua carriera politica. Dipende anche dalla balbuzie. A volte sembra invece non pensare molto prima di parlare. È sempre stato loquace, gli piace fare il simpatico giullare. Ricordo il giorno in cui il giudice Clarence Thomas venne confermato alla Corte Suprema: invece di fare domande a Thomas, Biden parlò senza sosta per cinque minuti. Non gli ha mai fatto una domanda, parlava di cose sue. Quando confonde il presidente dell’Egitto con il presidente del Messico fa sentire tutto il peso dell’età. È caratteristico delle persone anziane avere difficoltà nel recuperare le parole adatte o confondere persone che hanno un ruolo simile. Lo dico, sia chiaro, da grande fan della presidenza Biden: penso che abbia fatto un buon lavoro. Ha approfittato della maggioranza al Senato e alla Camera, nei primi due anni, per fare approvare molte leggi. Ha imparato dal mandato di Obama, quando l’ostruzionismo al Senato rendeva tutto complicatissimo. Ma non è più il tempo di Joe».
Come giudicherebbe una molto improbabile discesa in campo di Michelle Obama, se Biden dovesse annullare la sua corsa?
«Come abitante di Chicago, come molti abitanti di Chicago, conoscevo gli Obama prima della loro esperienza alla Casa Bianca. Non conosco Michelle molto bene, ma la conosco abbastanza per dire che non prenderebbe mai in considerazione l’idea di scendere in politica. L’idea, semplicemente, la angoscia. Si tiene saggiamente lontana. Penso sia preparatissima, è una donna di grande talento. La prima volta che l’ho incontrata ero a una cena. Ero seduto accanto a lei e alla fine delle portate ho pensato: raramente ho incontrato una donna così, devo sapere chi è suo marito, perché o è grande quanto lei oppure è uno zero totale. Naturalmente la risposta si è rivelata la prima. Penso che Michelle Obama sia una persona incredibilmente capace, intelligente, sensibile. Ma non è interessata a diventare presidente degli Stati Uniti. Sa bene, guardando suo marito, quanta merda devi sopportare. Non credo che abbia alcun interesse a farlo».
Qual è la sua opinione sulle parole del procuratore speciale Robert Hur sulla «scarsa memoria» di Biden? Ricorda la stessa operazione fatta con le email di Hillary Clinton da James Comey? Nel luglio 2016 il direttore dell’Fbi disse che Hillary era stata «estremante superficiale» nel gestire email sensibili da un server privato, pur non trovando margine per rinviarla a giudizio.
«Conosco Jim Comey e penso che sia un bravo ragazzo. Ma come pubblico ministero, almeno secondo la scuola in cui mi sono formato io, o affermi di avere capi di accusa validi oppure lasci cadere tutto e dici “arrivederci”. Senza ulteriori chiarificazioni. Nel caso di Hur, la legge gli imponeva di motivare la sua decisione: la qualità della memoria di Biden ha giocato un ruolo importante nel giustificare la ragione per cui non dovrebbero essere mosse accuse nei suoi confronti. Detto questo, la qualità della memoria di Biden oggi non ha nulla a che vedere con la rimozione di documenti confidenziali al termine della sua vicepresidenza. Hur ha sottolineato nelle motivazioni una registrazione di Biden che si rivolge al suo biografo, nel 2017. Questo dettaglio indica chiaramente lo stato della sua memoria all’epoca. In una certa misura, Hur aveva una ragione semicredibile per parlare della memoria di Biden. Il resto, come vediamo, è storia, con la coda di polemiche che ha suscitato. Sicuramente Robert Hur ha dimostrato di essere un repubblicano. Queste parole lo segneranno per il resto della vita. Forse per il meglio, se avrà intenzione di candidarsi a una carica pubblica. La risposta più breve alla sua domanda è che ciò che ha fatto Robert Hur è stato gratuito, ma non così gratuito come quello che ha fatto James Comey con Hillary Clinton».
Trump odia la Nato: se venisse rieletto prenderebbe forma l’idea di un nuovo isolazionismo americano?
«Se Trump venisse rieletto, gli Stati Uniti tornerebbero sicuramente a quella dottrina politica. Trump volterebbe le spalle all’Europa e direbbe: “Prendetevi cura di voi stessi, io penso all’America”. Una politica estera stupida e pericolosa. L’Europa occidentale è il nostro principale partner commerciale, addirittura più importante della Cina in questo momento. C’è un rapporto strettissimo e privilegiato tra i Paesi della Nato e gli Stati Uniti, non solo a livello economico. Noi non possiamo permetterci, per nessun motivo al mondo, di voltare le spalle all’Europa. Non possiamo permetterci di farlo, moralmente e culturalmente. La politica estera dei Maga fa appello all’ignoranza della popolazione americana, a cui non piace la globalizzazione: stiamo parlando di una popolazione fondamentalmente xenofoba, che non tollera lo straniero. Se dovesse vincere di nuovo, Trump sarebbe un pessimo partner per i Paesi della Nato. Probabilmente gli aiuti militari alle nazioni in guerra alleate continuerebbero a passare. I democratici voterebbero quasi uniformemente a favore dell’Ucraina, insieme con 30 o 40 repubblicani».
Chiudiamo questa chiacchierata parlando di Kamala Harris. La parabola della vicepresidente è stata velocissima: da astro nascente della politica americana al quasi oblio. Nessuno sembra fidarsi di lei. Il suo fallimento deriva anche da uno sfruttamento troppo ideologico delle politiche identitarie?
«Le politiche identitarie, come dice lei, sono un fattore importante nell’ala progressista del Partito democratico americano. Se provieni da una comunità svantaggiata, si presume che tu sia in gamba e valido. Se non appartieni a quel mondo, si presume che tu sia meno bravo. Il modo in cui i poveri, i neri e le altre minoranze sono stati trattati ha un peso enorme nel dibattito politico. E numerose vittime sono state fatte in nome di un’ideologia identitaria. A causa di una formula stereotipata tendiamo a pensare che nero o povero significhi “buono”. Non ha senso. Kamala Harris è un caso davvero interessante. Mi ricorda il “principio di Peter”, formulato nel 1969 dallo psicologo canadese Laurence Peter. Veniva postulato che ogni persona raggiungerà il massimo livello di incompetenza. Sfortunatamente, per Kamala Harris sembra essere proprio così. Ero molto attratto da lei, pensavo che potesse essere una valida candidata alla presidenza. L’ho ascoltata per un po’ e ho pensato: questa signora è un clown, è un abito vuoto. In certi momenti sembra essere un buon avvocato in un’aula di tribunale. Mi sono rimasti impressi due articoli scritti su di lei. Uno è uscito sul “New York Times Magazine”, l’altro sull’“Atlantic”. Leggendo gli articoli, ho notato come entrambe le giornaliste fossero giunte alla stessa conclusione su Harris: ovvero che c’era una sorprendente mancanza di sostanza nel suo profilo politico. Non ha alcuna visione, alcun ideale, secondo le autrici del pezzo. Si capiva, leggendo tra le righe, che entrambe le giornaliste avevano trascorso molto tempo con Kamala Harris prima di tirare le conclusioni. Come vicepresidente non ha impressionato, il suo percorso è stato incredibilmente insignificante. Non so se abbia uno scarso istinto politico o se abbia sempre paura di dire qualcosa di sbagliato, oppure se il problema sia calcolare in anticipo come verranno interpretate le sue frasi. Se fosse stata il tipo di star che è Michelle Obama, non saremmo nella situazione in cui ci troviamo: senza dubbio sarebbe stata lei la candidata democratica. Biden si sarebbe fatto da parte. I democratici avrebbero potuto contare su un candidato affascinante e potente. Non l’ho mai incontrata di persona, mi baso su quello che ho letto e sentito su di lei. Tra l’altro, ho scoperto che è molto sensibile riguardo alla sua altezza. Non sapevo fosse di bassa statura. È alta poco meno di 160 centimetri. Cerca sempre di assicurarsi di non essere presentata di bassa statura sui giornali. Una cosa di cui non m’importa assolutamente nulla. Kamala non dovrebbe dedicare troppe energie intellettuali a questo insignificante dettaglio. Sarà sempre più bassa di qualsiasi candidato maschio contro cui correrà».