La Lettura, 24 febbraio 2024
Trump e l’isolazionismo americano
Il 10 febbraio scorso, Donald Trump ha dichiarato a una folla osannante che, se fosse eletto presidente, non esiterebbe a incoraggiare la Russia a fare «quel che diavolo vuole» contro quei Paesi membri della Nato che non «pagano il conto» della loro associazione all’alleanza.
Le sue affermazioni hanno subito fatto il giro del mondo, provocando scandalo e condanna, ma anche riserbo e qualche silenzioso compiacimento. Le diverse risposte, o mancate risposte, dei responsabili politici internazionali ci dicono di più sullo stato d’animo di chi reagisce che su Donald Trump e sulle minacce che, da qualche mese, l’ex presidente americano dispensa con crescente virulenza.
Cominciamo da quest’ultimo aspetto, fonte di numerosi equivoci. Molti tendono a pensare che le sortite di Trump siano tutta farina del suo sacco; la storia degli ultimi otto anni, però, dovrebbe avere ampiamente dimostrato che, nel suo sacco, di farina ce n’è assai poca. Il magnate newyorchese ha un’istintiva capacità di fiutare l’aria che tira e farsene portavoce, volgarizzandola ed esasperandola: la paura della Cina, il protezionismo, le tendenze isolazioniste, l’idiosincrasia per gli immigrati, il sostegno incondizionato a Israele, l’odio per l’Iran, la possibilità di usare Mosca contro rivali più minacciosi e l’astio nei confronti degli europei sono tutte tessere della psicologia sociale e della politica americana che esistevano molto prima che la stella di Trump cominciasse, diciamo così, a brillare. Lui ha prestato la sua voce e il suo inconfondibile stile agli orientamenti oggi dominanti; e infatti molti sono stati ripresi dall’amministrazione Biden, al punto che, negli ultimi quattro anni, l’attuale inquilino della Casa Bianca è stato più volte definito un «Trump educato».
Si potrebbe insomma dire che Donald Trump è il sintomo – il più grottesco, ma non per questo meno grave, anzi – del disorientamento, della frustrazione e della rabbia di parte della popolazione, ma anche della classe dirigente, di fronte al declino del Paese, una cartina al tornasole che misura il livello di acidità della società americana. Può aggravare quel declino, certo; lo ha già fatto e lo rifarà se gli elettori gliene daranno la possibilità; ma non ne è la causa. L’eziologia, direbbero i medici, è una crescita economica che, da molti decenni, procede a ritmi più lenti di quelli dei competitori; con il tempo, il divario si è ampliato e gli Stati Uniti hanno progressivamente perso peso, credibilità e influenza, e la popolazione del Paese ha perso quella sicurezza – si potrebbe dire: quella sicumera – economica a cui era abituata, trovandosi in uno stato anomalo di incertezza e di ansia per il futuro. Più di dieci anni fa, all’indomani della crisi del 2008, il redattore economico del «Washington Post» Robert J. Samuelson aveva predetto che il consistente e definitivo rallentamento della crescita degli Stati Uniti avrebbe minacciato di «mettere in causa il nostro ordine politico e sociale». Così è stato. Per semplificare all’estremo, Trump è spuntato dopo la crisi del 2008 come i funghi spuntano dopo la pioggia (e siccome quella crisi ha colpito a livello globale, funghi di specie assai simile sono spuntati un po’ dovunque).
Per quanto Trump sia il sintomo del declino relativo americano e non la causa, è assai probabile che un suo secondo mandato alla Casa Bianca aggraverebbe le fragilità del sistema americano, sospenderebbe il mondo ai suoi intempestivi sbalzi d’umore, ridurrebbe ancora o forse addirittura distruggerebbe definitivamente la residua affidabilità degli Stati Uniti, e accelererebbe la tendenza al ritiro dal mondo, all’unilateralismo. Quanto profondi possano essere quei danni non dipenderà tanto da Donald Trump quanto dalla tenuta del sistema dei checks and balances (l’equilibrio dei poteri interni), cioè da quanto gli organismi istituzionalmente preposti a mettere dei paletti alle attività del presidente saranno ancora immuni dal cupio dissolvi, dalla deliquescenza che ha investito la società americana nel suo insieme, e di cui Donald Trump è la quintessenza.
Già il suo primo mandato era stato caratterizzato dal conflitto con quegli organismi, che lui e i suoi sodali chiamano lo «Stato profondo», cioè proprio con coloro il cui compito è difendere gli interessi strategici degli Stati Uniti, chiunque sieda alla Casa Bianca. Oggi Trump non perde occasione per ribadire che, questa volta, smantellerà i checks and balances, licenzierà i funzionari e i militari che non gli obbediranno, farà di testa sua. È dubbio che lo possa fare, ed è certamente impossibile che lo possa fare con la stessa disinvoltura con cui ne parla ai suoi fedeli; ma la sola volontà di andare in quella direzione sta fin da adesso provocando un’ulteriore fragilizzazione del sistema politico americano, e un’ulteriore riduzione dell’affidabilità degli Stati Uniti a livello internazionale. Non per niente, «The Economist» ha scritto a novembre che una rielezione di Donald Trump rappresenterebbe «il più grave rischio per il mondo nel 2024», specificando che un suo secondo mandato sarebbe sicuramente «più rovinoso» del primo. Ad aprile, l’edizione in inglese di «Der Spiegel» aveva fatto sapere che la classe politica tedesca si stava già attrezzando per fare fronte a quel possibile horror scenario.
Ma Donald Trump preoccupa molti responsabili politici nel mondo – e, non dimentichiamolo, ne manda in sollucchero altri – non perché vagheggia di incoraggiare i russi a invadere l’Europa o perché parla della Nato come se fosse una trattoria dove chi mangia deve pagare il conto (the bill, letteralmente), ma perché una sua vittoria a novembre significherebbe una brusca accelerazione della tendenza al disimpegno americano dal resto del mondo. La tendenza all’isolazionismo sta crescendo nella psicologia sociale e politica americana; ma non bisogna dimenticare che ne è sempre stata uno degli elementi costitutivi più importanti, fin dall’epoca di George Washington.
Quando, nel 1921, il presidente Warren Harding mise fine all’impegno internazionale assunto dal suo Paese nella Prima guerra mondiale, parlò di return to normalcy, ritorno allo stato normale delle cose; il mancato return to normalcy dopo la Seconda guerra mondiale è vissuto dagli americani come un’anomalia. La Nato, in particolare, era stata presentata loro come un’eccezione dolorosa ma necessaria per salvare il mondo dalla minaccia dell’Unione Sovietica; dal 1991, quindi, molti americani si chiedono perché la Nato esista ancora visto che, da allora, l’Urss non esiste più.
L’anomalia, però, è solo apparente. Infatti, nel corso del Novecento, gli Stati Uniti sono stati presenti nelle relazioni internazionali – perdipiù in posizione dominante – per 64 anni, quasi due terzi del secolo, e ininterrottamente dal 1941, una presenza che è continuata per tutto il XXI secolo. Che l’isolazionismo rappresenti la normalcy, dunque, è solo una percezione, ma nondimeno una percezione profondamente radicata, che ha sempre condizionato la politica estera del Paese: soprattutto negli anni Novanta, quando la discussione sull’obsolescenza della Nato rimase viva fino al dirottamento dell’alleanza fuori dai suoi confini, prima in Kosovo e poi perfino in Afghanistan.
Dopo i disastri delle spedizioni in Iraq e, appunto, in Afghanistan, il return to normalcy è diventato, si diceva, un’aspirazione generalizzata. Che deve però quadrare il cerchio con l’esigenza strategica degli Stati Uniti che va esattamente in direzione opposta: come ogni potenza dominante, la condizione sine qua non per godere di tutti i benefici di quella posizione è continuare a dominare. Sembra lapalissiano, ma, agli occhi degli elettori, non lo è.
Il paradosso – certamente non da oggi – è che le due tendenze (isolazionismo e interventismo) coesistono necessariamente; il che significa che la politica americana è sempre suscettibile di passare dall’una all’altra anche bruscamente. Sia Woodrow Wilson che Franklin Roosevelt portarono il loro Paese in due guerre mondiali pochi mesi dopo essere stati eletti su una piattaforma isolazionista, cioè sulla promessa di non portare il proprio Paese in guerra.
Oggi, la stanchezza per l’impegno in Ucraina e l’insofferenza per la Nato convivono con la volontà di fermare la Cina e con l’odio per l’Iran, nonché con un nazionalismo a fior di pelle che fa scattare la molla interventista ogni volta che un soldato o un civile americano cade vittima in una zona «calda» del mondo. Riassumendo, si potrebbe dire che i due rischi maggiori che incombono sulle relazioni internazionali dei prossimi mesi e anni sono che gli Stati Uniti si ritirino sempre più dagli affari del mondo e, il secondo, che gli Stati Uniti accrescano il loro ruolo negli affari del mondo: essere trascinati in un conflitto mentre ci si sta ritirando è il peggiore scenario possibile, dal punto di vista militare e, soprattutto, politico.
Questo «isolazionismo interventista» è la tendenza dominante oggi in America, e le elezioni del 5 novembre decideranno solo quali forme prenderà: accelerata e aggressiva, rappresentata oggi da Donald Trump, oppure graduale e soft, rappresentata oggi da Joe Biden. Tenendo però a mente che i ruoli possono sovrapporsi, incrociarsi o addirittura scambiarsi, perché le variabili sono molte e non tutte – anzi, sempre di meno – dipendono da quello che succede a Washington.
Una forma accelerata e aggressiva dell’isolazionismo interventista obbligherebbe tutti i Paesi che si sono adagiati sulle sicurezze del passato a prendere contromisure altrettanto accelerate, e quindi molto probabilmente raffazzonate, con il rischio, inoltre, di non riuscire a prenderle a causa delle divisioni e dei calcoli elettorali interni a ciascun Paese. Alcuni hanno cominciato a prepararsi a tempo, se non altro psicologicamente, senza aspettare le dichiarazioni del 10 febbraio. Già nel 2017, la pur ponderata e filo-americana cancelliera tedesca Angela Merkel era stata costretta a dichiarare che «il tempo in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri è passato». Nel febbraio 2022, il suo successore Olaf Scholz affermò che l’invasione dell’Ucraina rappresentava una Zeitenwende, un cambiamento d’epoca, a cui la Germania si sarebbe adeguata iniettando 100 miliardi di euro supplementari nel budget della difesa. A distanza di due anni, poco è stato fatto: secondo il Consiglio tedesco degli affari esteri, sul cammino della traduzione pratica di quell’intento si erano frapposti «mesi di lotte per trovare un compromesso con il rispetto della regola federale del “freno al debito”», e di lotte tra i diversi ministeri per ricevere maggiori fondi federali. In conseguenza, il ministro della Difesa Boris Pistorius ha alzato la posta a fine ottobre: «Dobbiamo abituarci all’idea che potrebbe esserci una minaccia di guerra in Europa, e questo significa che dobbiamo prepararci alla guerra». A febbraio, il suo collega svedese, Carl-Oskar Bohlin, ci ha aggiunto del suo: «Una guerra è possibile... Tutti gli svedesi devono essere coscienti della possibilità di una guerra».
La disputa fra ministeri per contendersi i fondi pubblici non è certamente una prerogativa tedesca, e lo strumento migliore per ottenerli è sempre stato la drammatizzazione della propria condizione: gli ospedali non funzionano, la scuola è inefficiente, il rischio di guerra si avvicina. Finché l’allarme lanciato dai vari ministri della Difesa, o dai generali, riguarda la distribuzione di fondi o la dotazione di armamenti, è probabile che si stiano strumentalizzando le ansie generate dal crescente disordine internazionale; tanto più che sia Pistorius che Bohlin indicano la Russia come rischio più immediato – una minaccia poco convincente se si considera lo stato di debilitazione forse irrimediabile che Mosca si è inflitta con la sua inutile guerra in Ucraina.
Ovviamente, l’implausibilità di un pericolo russo non significa che il pericolo non sussista. La proliferazione di conflitti nel mondo segnala un contesto di pericolo permanente, di fronte a cui la Germania è sguarnita: secondo RealClearDefense, un sito vicino al Pentagono, la riserva di munizioni tedesca permetterebbe un’autonomia di combattimento di «solo pochi giorni». L’incombente possibilità di un ritiro americano, graduale o brutale, spinge a considerazioni strategiche di più ampia portata, di cui i fondi alla difesa e il munizionamento sono elementi necessari ma insufficienti.
Da un punto di vista strategico, i Paesi più esposti alle crescenti minacce internazionali sono proprio la Germania e il Giappone, che hanno subìto la «protezione» americana come conseguenza della sconfitta del 1945, e hanno sempre avuto scarsi margini di autonomia politica e soprattutto militare. Dei due, il più immediatamente a rischio è il Giappone, perché si trova nella zona più calda del pianeta. Tra le continue provocazioni di Pyongyang, le intimidazioni di Pechino a Taiwan, le dispute sulle isole Kurili e Sunkaku e, più in generale, le tensioni crescenti tra Pechino e Washington, Tokyo non può più permettersi di abbandonare la propria difesa alla mercé dei volubili umori americani. I giapponesi hanno sempre saputo che la presenza statunitense nell’arcipelago non aveva tanto lo scopo di proteggerli quanto di impedire loro di rifare quello che avevano fatto negli anni Trenta, e quindi dipendere dagli Stati Uniti per la difesa è sempre stato motivo di disagio (eufemismo). Dopo la fuga ingloriosa degli americani da Kabul, nell’agosto 2021, a Tokyo è scattato l’allarme: se questa è la protezione che Washington garantisce ai suoi «amici», meglio prepararsi a difendersi da sé.
Lo stesso discorso, insomma, di Merkel del 2017. Ma sia per il Giappone che per la Germania non è ancora chiaro che cosa questo voglia dire concretamente, sapendo che il problema non si limita agli aumenti della spesa militare. Dovrebbero definire un nuovo orientamento strategico (mettiamo, per semplificare, più integrazione europea per Berlino e più integrazione asiatica a Tokyo), ma è quasi certo che, se questo avvenisse, la bilancia americana tra isolazionismo e interventismo penderebbe di nuovo verso il secondo.
È lecito supporre che, al di là della condanna di rito, i fuochi artificiali di Trump non dispiacciano invece ai francesi. Dall’epoca di Charles de Gaulle, Parigi sogna di incarnare il «terzo polo» mondiale, ed Emmanuel Macron ha posto la sua presidenza sotto il segno dell’«autonomia strategica» dell’Europa. Ma anche se l’inquilino dell’Eliseo sperasse in una (comunque improbabile) separazione consensuale tra Berlino e Washington, la possibilità che Polonia, i tre Paesi baltici, Romania, ma anche Finlandia e Svezia rinuncino a un rapporto più stretto possibile con gli Stati Uniti è, in linea di massima, poco verosimile, tanto più se l’alternativa fosse un asse Parigi-Berlino o, peggio ancora, Parigi soltanto. Un attacco russo a quei Paesi è, si è detto, implausibile, ma un accentuarsi dell’isolazionismo americano, o addirittura l’uscita degli Stati Uniti dalla Nato spingerebbe quasi certamente Mosca ad accrescere la pressione sugli Stati confinanti, non per invaderli, perché non ne ha le forze, ma per testare fino a che punto Washington sarebbe disposta a spendersi per difendere Riga o Tallinn.
E questa è precisamente la ragione per cui la Russia non può che essere soddisfatta per la sortita di Trump del 10 febbraio. E anche un po’ orgogliosa per avere contribuito a issare alla testa della prima potenza mondiale un personaggio così instabile, facilmente influenzabile, e sensibile al fascino dell’«uomo forte». Nell’intervista a Tucker Carlson del 6 febbraio, Vladimir Putin ha rilanciato la sua idea di un negoziato diretto con l’America sull’Ucraina: al di là dell’insensata bramosia di apparire come potenza al pari degli Stati Uniti, Mosca avrebbe bisogno di Washington per svincolarsi almeno in parte dalla subordinazione crescente a Pechino, contando sul fatto che Washington avrebbe bisogno di Mosca per «accerchiare» la Cina e alleggerire la propria presenza sul Pacifico. La Russia prenderebbe due piccioni con una fava, e chiunque sedesse alla Casa Bianca si cingerebbe degli allori di salvatore della pace mondiale.
Ma non è detto che questo potrebbe salvare l’inquilino del Cremlino. Anzi, è anche possibile che la condizione per arrivare a quel risultato sia proprio la sua scomparsa. Putin sfoggia le piume del pavone per la conquista di qualche chilometro quadrato a spese dell’Ucraina, ma i segnali politici che arrivano da Mosca non sembrano essergli così propizi: squalificare i concorrenti a elezioni presidenziali già vinte d’ufficio (15-17 marzo) e continuare a eliminare fisicamente gli oppositori come Aleksej Navalny sono segni di debolezza, non di forza. Negli ambienti della capitale qualcuno ha spiegato al presidente che uno sbilanciamento troppo accentuato verso la Cina potrebbe spingere l’India nelle braccia degli Stati Uniti: è una preoccupazione fondata, ma è anche un avvertimento, un’esortazione a cambiare tattica; e la proposta di dialogo diretto con Washington trasmessa al giornalista preferito di Donald Trump potrebbe essere la risposta a questo avvertimento.
Non è un caso che l’India sia usata nella lotta politica a Mosca. Le elezioni di aprile nel gigante dell’Asia del Sud saranno quasi certamente vinte, per la terza volta, dalla coalizione di Narendra Modi; questo significa che il Paese dovrebbe continuare a perseguire, in politica estera, il cosiddetto «multi-allineamento», cioè, per semplificare, mostrarsi amici di tutti e nemici di nessuno. Ma ognuno sa – e soprattutto lo sanno a New Delhi – che, per l’India, la Cina è un amico per finta e una minaccia per davvero. Anche se nella capitale l’attenzione è distratta dai calcoli elettorali immediati, il timore di restare soli di fronte a Pechino comincia a serpeggiare: «India Today» dell’11 febbraio sottolineava il rischio che «gli Stati Uniti siano meno affidabili chiunque vinca» a novembre. Al di là della minaccia di Trump di punire il protezionismo indiano con una massiccia rappresaglia sui dazi, il nodo è, anche qui, di natura strategica. Come segnalato da Mosca, lo storico legame con la Russia ha cominciato ad allentarsi: le importazioni di materiale bellico russo sono passate dal 79% del totale nel 2010 al 35% nel 2020; e, pur negando di essere influenzata dalle scadenti performance in Ucraina, nel 2022 New Delhi ha cancellato una serie di acquisti e di programmi di cooperazione militare. Più la Russia rischia di scivolare nell’orbita cinese, meno l’India ha interesse a mantenere legami con Mosca e più ne ha, invece, a consolidare il rapporto con Washington. Ma Washington, appunto, è sempre meno affidabile, a meno che il suo disimpegno progressivo dagli affari internazionali non prenda la forma di una collaborazione con Mosca per isolare la Cina; solo in quel caso New Delhi potrebbe sentirsi parzialmente rassicurata. Se no, all’India resterebbero solo due alleati potenziali: il Giappone e l’Australia, e forse la Francia se il suo progetto di «autonomia strategica» avesse qualche possibilità di successo. Sempre che Tokyo e Canberra non finiscano invece in una sorta di rete asiatista con la Cina – di fronte alla quale difficilmente gli Stati Uniti resterebbero senza reagire.
Come si vede, la Cina rientra in tutte le equazioni. E Xi Jinping, dal canto suo, approfitta della sortita di Trump per lanciare un esplicito invito all’Europa a prendere definitivamente le distanze dagli Stati Uniti e unire le sue forze all’Impero di mezzo, come ha appena proposto il ministro degli Esteri Wang Yi alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco. «Biden ha sfruttato l’Europa, e a Trump non interessa se scoppia un altro conflitto sul continente», aveva sentenziato «Global Times», giornale nazionalista di Pechino, l’11 febbraio. È, in chiaro, una sollecitazione a Parigi e Berlino a continuare sulla strada dell’«autonomia strategica», sapendo che, in pratica, si tratterebbe di una maggiore autonomia da Washington e di una minore autonomia da Pechino. Una riduzione del peso e del ruolo degli Stati Uniti è nell’agenda della Cina, ma con juicio, avrebbe detto il gran cancelliere: l’America è ancora, e lo sarà a lungo, la migliore garanzia della stabilità economica cinese, che è a sua volta la migliore garanzia della stabilità politica cinese.
È sempre azzardato, e spesso anche superfluo, avventurarsi nel labirinto delle speculazioni su ciò che potrebbe accadere. È certo, tuttavia, che il disordine mondiale è entrato in una fase acuta, e che più gli Stati Uniti crederanno di salvarsene ritirandosi dagli affari internazionali, più la ricerca di nuovi orizzonti strategici si farà affannosa, e più il disordine si acuirà, finendo inevitabilmente per coinvolgere gli Stati Uniti stessi. Non c’è via di scampo: il disordine, o si cerca di controllarlo, nei limiti del possibile, o si finisce per subirlo. È una legge della vita, prima ancora che della politica. Le elezioni americane di novembre ci diranno solo quanto il disordine mondiale si accelererà. Dove andrà a parare, lo vedremo solo negli anni a venire.