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 2024  febbraio 24 Sabato calendario

AGNELLI IN PARADISO (FISCALE) – I PM DI TORINO POTREBBERO ARRIVARE DOVE NON RIUSCIRONO QUELLI MILANESI NEL 2009: DIMOSTRARE L'ESISTENZA DEL “TESORO” OFFSHORE DELLA FAMIGLIA DELL’AVVOCATO – ALLORA FURONO SCOVATE TRE MISTERIOSE “ANSTALT” (SOCIETÀ ASSOCIATE A UN PATRIMONIO), CON IN PANCIA CIRCA 448 MILIONI DI FRANCHI SVIZZERI, MA IL CASO FU ARCHIVIATO. QUEI SOLDI CHE SAREBBERO STATI OCCULTATI AL FISCO ITALIANI E SOTRATTI ALL’EREDITÀ DI GIANNI, E QUINDI “TOLTI” ALLA FIGLIA MARGHERITA – I PRESUNTI GESTORI? I FEDELISSIMI DI FAMIGLIA, GIANLUIGI GABETTI, FRANZO GRANDE STEVENS E… -























Estratto dell’articolo di Gaspare Gorresio e Gigi Moncalvo per “La Verità”

Il tesoro off-shore degli Agnelli era già stato oggetto di un’inchiesta milanese, che venne archiviata per la mancata collaborazione delle autorità svizzere e del Liechtenstein. Ma già allora emergevano solidi indizi sull’esistenza di sostanze immense nascoste nei vari paradisi. Tracce che sono finite nell’ultima denuncia depositata da Margherita Agnelli presso la Procura di Torino.

Un filo rosso, dunque, collega le due indagini e potrebbe rendere attualissime le scoperte contenute nel fascicolo meneghino. Compresa quella su tre misteriosissime anstalt che, quando vennero scovate, avevano in pancia circa 448 milioni di franchi svizzeri in titoli del Liechtenstein.

Che cosa sono queste anstalt? Prendiamo a prestito la definizione di Wikipedia: «È un istituto giuridico peculiare […] consistente nell’attribuzione della personalità giuridica ad un patrimonio. La particolarità di questo istituto, assimilabile alla fondazione, sta nel fatto che il soggetto di diritto così creato può svolgere qualsiasi tipo di attività, anche con scopo di lucro».

Insomma, un modo per trasformare patrimoni anonimi in entità in grado di fare affari. Denaro che non resta a prendere polvere nascosto, ma imprende. Il sogno di ogni evasore. Dall’archiviazione di Milano, a proposito dell’eredità degli Agnelli, non si era più parlato del Principato incastonato nelle Alpi, fino a quando, nei mesi scorsi, la Guardia di finanza di Torino non ha scoperto che a John Elkann, primogenito della donna, erano riconducibili due società anonime del Liechtenstein, la Blue dragons e la Dancing tree.

Il giudice meneghino Maria Cristina Mannocci, nell’ordinanza datata 2 luglio 2013, aveva scritto: «Dalla Procura della Repubblica di Milano emergono molteplici elementi che inducono da un lato a ritenere come verosimile la esistenza di un notevolissimo patrimonio del defunto Giovanni Agnelli rimasto occulto […] al fisco italiano e anche alla figlia»

Per i pm «un primo indizio» risultava dalle «modalità di adempimento dell’accordo successorio siglato nel 2004 tra le eredi Agnelli», ovvero la moglie di Gianni, Marella Caracciolo, e la figlia, Margherita. Si tratta della storia che abbiamo raccontato ieri e che riguarda un bonifico di 109 milioni di euro in favore di Margherita Agnelli, partito da una filiale della Morgan Stanley di Zurigo.

«Questo conto era sicuramente sconosciuto al Fisco, non essendo stato inserito nel quadro Rw relativo alle dichiarazioni dei redditi di Giovanni Agnelli presentate per gli anni d’imposta 2002 e 2003 e sottoscritte dalla moglie Marella Caracciolo» sottolinea il giudice. L’ordinanza di archiviazione puntualizzava anche che dell’«esistenza di provviste immense riferibili a Giovanni Agnelli presso la sede di Zurigo di Morgan Stanley aveva parlato nel corso delle indagini Paolo Revelli, ex managing director di Morgan Stanley nella divisione che si occupava della gestione dei grandi patrimoni».

[…] Purtroppo le indagini si arenarono: «Informazioni più approfondite sul punto non sono state raccolte, non essendo stato possibile acquisire dati ulteriori dalla banca coinvolta e non avendo l’autorità giudiziaria elvetica assicurato la necessaria collaborazione» si legge nell’atto giudiziario.

Ma ecco la nuova pista: «Un ulteriore elemento Indiziario porta a Vaduz (Liechtenstein), ove avevano sede fondazioni, trust e anstalt riconducibili a Giovanni Agnelli. L’esistenza di queste entità è riferita a Margherita Agnelli […] dallo stesso Gamna (Emanuele, ex avvocato della donna, prima che i due andassero in causa, ndr). Quest’ultimo ebbe a dire, in sede di interrogatorio, che la somma oggetto dell’accordo concluso dalla signora Agnelli derivasse proprio dalla liquidazione dei trust nel tempo confluiti in Alkyone (fondazione con sede appunto a Vaduz)».

La vera cassaforte dell’Avvocato. E alla struttura e alla composizione di questi trust che John Elkann avrebbe fatto riferimento asserendo testualmente, così come riferito dallo stesso Gamna, «non vi daremo mai quelle società e i loro conti perché voi non dovete vedere le operazioni che vi sono passate».

Dalle indagini sarebbero emersi i nomi dei «Protectors» della fondazione, ossia Gianni Agnelli, Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens e Siegfried Maron, il commercialista svizzero che avrebbe gestito per conto di Gianni Agnelli il tesoro nascosto in paradiso.

Anche altri soggetti, come l’imprenditore Orlando Bisegna e il giornalista Caris Vanghetti, «erano a conoscenza dell’esistenza di alcune fondazioni anstalt riconducibili alla famiglia Agnelli, nonché in possesso di documenti a queste relativi seppur oscurati nelle parti identificative».

Bisegna, quarantottenne di origine abruzzese, aveva avvicinato Margherita Agnelli raccontando di essere entrato in possesso di alcuni documenti riservati che svelavano i nomi dei beneficiari di un patrimonio che ammontava a circa 96 milioni di euro, frutto di una montagna di «zero coupon bonds» in scadenza e con il valore indicato in franchi svizzeri. […] La fonte sarebbe stato un suo amico di Vaduz che lavorava in una fiduciaria in cui era domiciliata l’anstalt. Successivamente l’uomo si corresse e spiegò ai finanzieri che la fonte era una persona di Roma di cui sapeva poco o nulla, ma che incontrava nella Capitale.

Una retromarcia che insospettì gli inquirenti, ma non i legali di Margherita, i quali apprezzarono il fatto che Bisegna operasse alla luce del sole, avesse consegnato i suoi documenti e fosse raggiungibile sul cellulare e persino disponibile a parlare con l’autorità giudiziaria.

Agli inquirenti venne consegnato un cosiddetto By law, lo statuto che indicava i beneficiari dell’anstalt, che risultavano essere Margherita Agnelli, al 75 per cento, sua madre Marella, al 25%. Bisegna riuscì a farsi garantire come ricompensa una percentuale del 5 per cento, inizialmente calcolata sul patrimonio spettante a Margherita (72 milioni), poi sull’intero valore degli asset.

L’uomo tentò di portare a casa anche un anticipo di quasi 1 milione di euro, ma ciò non bastò a ritenerlo del tutto non credibile. Vanghetti, invece, consegnò due «accordi strettamente confidenziali» (in sostanza dei patti parasociali, in cui si faceva riferimento ai rispettivi statuti), siglati, a nome di altre due anstalt, tra i più stretti consiglieri di Gianni Agnelli, il manager Gianluigi Gabetti e l’avvocato Franzo Grande Stevens, e le fiduciarie domiciliatarie.

Qui i tesoretti «zero coupon bonds», tutti con scadenza nel 2010 erano più cospicui: il primo aveva «asset» per 212 milioni di franchi svizzeri e i destinatari di questa fortuna erano Margherita e suo fratello Edoardo al 50 per cento ciascuno (quindi il documento doveva essere antecedente alla morte di quest’ultimo, avvenuta nel novembre del 2000).

In caso di decesso di entrambi, il malloppo sarebbe passato a Marella e infine a Gabetti. Il secondo aveva «zero coupon bonds» in cassaforte per 236 milioni e, in questo caso, le beneficiarie erano Margherita e sua madre Marella, rispettivamente all’80 e al 20 per cento. Nell’accordo firmato da Gabetti l’eventuale, ultimo beneficiario, come per la prima anstalt, era Franzo Grande Stevens, in quello siglato dall’avvocato, invece, l’ultimo «erede» contemplato era il vecchio manager scomparso da pochi anni.

Ma tutti questi documenti erano privi di informazioni essenziali. Erano stati oscurati con un pennarello nero i nomi delle anstalt, l’indirizzo di Vaduz delle fiduciarie di riferimento, le generalità dei soggetti che rivestirebbero, all’interno della struttura ruoli di gestione o responsabilità, gli agenti dell’operazione, i notai e la parte del timbro che poteva consentire la loro identificazione. Insomma mancavano all’appello tutti i dati che avrebbero permesso a Margherita di provare ad andare a incassare i titoli prima della scadenza.

Bisegna e Vanghetti protessero le fonti e non rilasciarono queste informazioni agli inquirenti, anche perché una di queste, a dire di Bisegna, aveva ritenuto l’affare troppo rischioso. Vanghetti, dopo aver consegnato copia dei due «confidential agreement» con gli omissis, riferì alla Fiamme gialle i nomi del presunto notaio, «verosimilmente di Vaduz», e il fondatore delle due anstalt: «Si tratta dell’avvocato Daniel Sauter dello studio “Staiger Schwald” di Zurigo» disse.

Quest’ultimo era guidato da Hans-Rudolph Staiger, il professionista svizzero di cui si è servito Gianni Agnelli in numerose occasioni. Davanti ai magistrati si presentò spontaneamente Gabetti, il quale negò di aver preso parte alla costituzione di una anstalt: «Il documento che mi viene mostrato è un documento sul quale ho seri dubbi circa l’autenticità» disse.

La sigla, in calce, al documento poteva essere la sua, ma ipotizzò che «l’operazione» fosse stata «fatta al computer o con qualche altro sistema di trasporto della firma». Ammise di essersi recato «varie volte a Vaduz, ma sempre e soltanto per ragioni attinenti l’attività delle società del Gruppo, in primis Exor, ma anche altre». A questo punto i pm tentarono la carta della disperazione: una rogatoria in Liechtenstein.

[…]  La risposta […]  fu quasi sprezzante, una specie di lezione di procedura, in cui si spiegava che non era stato possibile comprendere adeguatamente i reati contestati a Giovanni Agnelli e Maron e in cui si specificava che se gli inquirenti milanesi erano a caccia di frodi ai danni dell’Erario, il loro Paese non forniva «assistenza legale nei procedimenti penali per reati fiscali».

Alla fine i pm si arresero […]. Ora l’inchiesta di Torino potrebbe fare chiarezza anche su questo mistero.