La Stampa, 24 febbraio 2024
Cosa significa scrivere
Io sono capitata nel momento giusto. Se fossi stata capace – anzi diciamo solo intenzionata a scrivere nel 1998, a Luzzano (Bn), mentre studiavo i codici di legge, matta e peggio che disperatissima, in più pendolare a Napoli, non penso che m’avrebbe ascoltata qualcuno.
La cosa certa, a vent’anni, era che scrivere mi poteva pure piacere, ma non era alla mia portata. Non c’era il modo, non c’era una possibilità vicina, non c’era internet per affacciarsi a un balcone e sapere nel mondo, fuori, come facevano quelli come me.
Quella specie di sentimento di esclusione dell’ipotesi lo trovai più tardi, espresso meglio di come lo pensavo io: «Ho sempre voluto essere uno scrittore, ma siccome provenivo da un ambiente operaio, era difficile credere che ne avessi il diritto. Quando sei il primo di tutta la famiglia ad andare al college, tutti si aspettano che miri alla laurea per ottenere la sicurezza economica. Il solo motivo per cui si va al college è trovare un lavoro. Lavoro, denaro, sicurezza – sono idee impresse indelebilmente nel cervello. L’ambizione di diventare un artista non va d’accordo con nessuna delle tre. Se torni da queste persone che “si sono spezzate la schiena e hanno fatto sacrifici” per mandarti a scuola, che sono le colonne portanti della tua vita, e dici loro che vuoi fare lo scrittore, il ballerino, il poeta, il cantante, l’attore, e che per diventare quello che vuoi andrai a servire ai tavoli, guidare un taxi, smistare la posta, con la tua laurea, ti guarderanno come se li stessi uccidendo con un taglio netto alla gola. Sostenere una scelta del genere non appartiene al loro modo di intendere la vita. Poiché le mie origini erano le loro, la decisione di non andare a studiare legge faceva paura» (Richard Price, The Paris Review, vol. I, Fandango).
Scrivere m’è venuto incontro per una serie di circostanze. Mi sembra hybris non chiamarle fortuna. C’entrava internet, c’entrava l’essere notati, c’entrava quella globalizzazione a misura di privato che avevano rappresentato i social dell’esordio. Chi voleva scrivere si poteva cimentare. E si faceva sotto gli occhi di persone che erano gli stakeholder, si direbbe col termine economico esatto per descrivere tutta la faccenda.
Insomma s’aprì un piccolo rubinetto delle croci, per i giornali, per l’editoria, per il lavoro d’autore tv, e figurai tra i nuovi decorati.
Dobbiamo molto a chi ci dà un po’ di fiducia, scriveva Capote. Molto vero. E per darti fiducia serve qualcosa: ti devono vedere.
La legge poi non solo l’ho studiata, l’ho tenuta. Ancora è il mio mondo, ancora sono le mie dieci ore al giorno, è quello che mi manda a letto nervosa la sera, a volte.
Da che cosa si capisce che uno spazio per scrivere ancora esiste, che c’è il modo di seguire due strade, non una sola?
Per quanto mi riguarda, dal cattivo umore che mi prende quando penso che non posso passare la vita così. A fare troppe cose in poco tempo. E poi continuo a farlo. Non c’è niente di necessario, e non è una vocazione. Non è un lavoro, e – parlo sempre per me – non è buono che lo diventi. A «perché scrivere?» hanno provato a rispondere tutti, senza successo. Il più divertente è stato Philip Roth: scrivo per vedere se sono capace.
«Perché scrivi?» è una di quelle domande-onoreficenza. Per fortuna non me la fanno. La domanda che sento più spesso invece è: «Ma come fai a fare tutto?». All’inizio mi piaceva. Prima di capire che è una domanda di cui solo un fesso potrebbe essere contento.
Serve tutto, te ne accorgi col tempo. Serve perfino non scrivere, per scrivere. Fare altro è un pozzo di vite degli altri. Non devo appoggiare tutto sulla fantasia – risorsa limitatissima, si scopre da adulti.
Avvocato è un mestiere fatto di togliere. E di ricerca di soluzioni rapide. Non si costruisce gradualmente, da queste parti, la soluzione. Si trova e basta. La mezza pagina ben scritta è quella che di solito vince. E la mezza pagina può permettersi di essere mezza, davanti al giudice, perché ha ragione. Così mi sono abituata al poco. Mi piace il poco, perché deve essere chiaro. La stregoneria che riesce ad alcuni scrittori. Mi pare si porti dietro un senso di allegro, di riuscita. È una microvittoria sulla complessità. Almeno mi diverte pensarlo.
Chi parla di “lavoro creativo”, intende, magari in un modo un po’ maldestro, un lavoro che in realtà è come un gioco, in cui si è liberi di creare, scrive Stefano Bartezzaghi ne L’elmo di Don Chisciotte. Contro la mitologia della creatività (Laterza).
«Fortunato tu, che fai un lavoro creativo...». È una frase a cui non so mai come reagire, se non cambiando discorso. Capisco l’allusione a un’attività che non è precisamente paragonabile al lavoro alla catena di montaggio, o in miniera. Capisco anche che ci stia sotto una mitologia delle professioni inusuali. Capisco infine che l’equivoco sia dovuto al fatto che si pensi che lavorare per il divertimento degli altri sia sempre e invariabilmente, per contagio o per osmosi, un divertimento anche per sé.
L’ultima scoperta che fai se scrivi, è che non è bella l’invenzione, il campo aperto, sentirsi l’idea in testa. È bella la pagina scritta. Che è un lavoro di resistenza, di ripetizione. Di tempo. Qualcuno dice di solitudine, ma quale solitudine?
Calvino se ne andò in Francia, a un certo punto. «A Parigi ho la mia casa di campagna... facendo lo scrittore una parte la posso svolgere in solitudine, non importa dove, in una casa isolata in mezzo alla campagna, o in un’isola; questa casa di campagna io ce l’ho nel bel mezzo di Parigi».
Ci penso spesso. E concludo facendo l’elenco dei beni di prima necessità per essere capaci di scrivere. La casa di campagna. La casa di campagna che serve per scrivere uno deve portarsela appresso nella testa, in qualsiasi condizione di caos, affollamento e impegno. Basta che la casa immaginaria sia dipinta di color senso di colpa, perché in quel caso, sentendoti molto indietro, molto meno bravo di quegli altri che scrivono belli immersi e privilegiati, scrivi pure tu