La Stampa, 24 febbraio 2024
Storia dei valdesi
Il peso numerico dei valdesi è sempre stato trascurabile. Negli anni ’30 del ‘900, secondo i dati Istat gli italiani che praticavano culti religiosi diversi da quello cattolico erano in tutto non più di 200mila, contando ebrei, greco ortodossi, evangelici, maomettani... Tra gli evangelici erano compresi anche i valdesi, della cui storia italiana ci parlano 850 anni dopo quattro volumi collettanei, che ne accompagnano le vicende a partire dalla predicazione di Pietro Valdo, nel 1174, il fondatore di quella che fu considerata solo una delle tante eresie pauperistiche medievali, fino alla loro compiuta trasformazione in una chiesa evangelica e al 1990, alla fine, quindi, della nostra Prima repubblica.Il quarto volume, a cura di Paolo Naso e che ospita i saggi di alcuni autori di grande respiro, è dedicato infatti proprio al periodo che va dal 1870 al 1990. Un secolo di grandi cambiamenti per l’Italia, sul quale la piccola comunità eretica, in origine arroccata nelle valli piemontesi scavate dal Pellice e dal Chisone, ha proposto una testimonianza molto originale, proprio perché “laterale”, collocata ai “margini”, in territori del nostro confine occidentale trasformatisi in un osservatorio prezioso su molti degli aspetti più insoliti della nostra identità nazionale. Una minoranza dal punto di vista quantitativo, certamente; ma una minoranza dalla cui storia abbiamo molto da imparare proprio perché praticava una religione diversa e “altra” rispetto al sentire comune della maggioranza cattolica degli italiani.Quella che i valdesi hanno proposto è infatti una loro specifica identità, forgiata dall’asprezza delle montagne della loro culla geografica, dalle innumerevoli persecuzioni che hanno segnato la loro esistenza collettiva e da una forma di religiosità quasi del tutto estranea a una cultura cattolica abituata al compromesso più che all’intransigenza, alla dissimulazione più che alla sincerità, incline al perdono, al quieto vivere, a risolvere cioè negli accomodamenti del “foro interiore” i dilemmi posti alla coscienza dei singoli individui dalla politica, dalla società, dalla storia.Gli uomini e le donne che hanno accolto la predicazione di Valdo sono invece abituati a frequentare la sincerità in ogni manifestazione, spesso sfiorando la brutalità con un candore disarmante per gli altri italiani. Si tratta comunque di una minoranza molto presente nel nostro spazio pubblico, di una specifica comunità di fede che ha molto contribuito alla crescita culturale del nostro paese.Stiamo parlando dei fedeli, non tanto della Chiesa valdese come istituzione, la cui storia, peraltro, è stata molto studiata con una chiave di lettura che ne sottolinea una sorta di gratitudine perenne verso la dinastia dei Savoia che l’aveva “liberata” dal ghetto con Carlo Alberto, il 17 febbraio 1848. Di fatto, da quel momento in poi la Chiesa valdese si è sempre riconosciuta nello Stato italiano, nella monarchia, nel fascismo, nella Repubblica, animata da un surplus di slancio patriottico che ha reso i suoi fedeli “più italiani degli altri italiani”, con prove di dedizione numerose e abbondanti, soprattutto in occasione della mobilitazione interventista e della guerra 1915-1918.Nel solco di una fedeltà assoluta ai valori dell’Italia liberale (tradottasi, in politica, nella scelta di un liberalismo moderato) ci si adeguò quindi anche al fascismo, con cui si scelse di convivere senza conflitti, scoprendone con colpevole ritardo la natura totalitaria. Fu il Concordato tra il regime e la Chiesa cattolica, nel 1929, e, soprattutto, il provvedimento del sottosegretario agli interni, Guido Buffarini Guidi, che vietava il culto pentacostale («in quanto lesivo dell’integrità fisica e psichica della razza ariana»), attaccando frontalmente il principio della libertà religiosa, a indurre un primo motivo di attrito con Mussolini; ma anche allora la reazione all’infamia delle leggi razziali del 1938 fu molto flebile, preferendo considerarle motivate da ragioni etniche e non religiose, mentre si continuò a guardare con benevolenza alle guerre del regime (prima in Etiopia, poi in Spagna).Il detonatore della rottura tra il “silente immobilismo” della Chiesa e i fermenti che agitavano i giovani valdesi, schierati per un’opposizione intransigente al regime, fu la predicazione del teologo Karl Barth, il cui «antifascismo spirituale ed ecumenico poggiava su una visione teologica inconciliabile con il nazionalismo e la dottrina del superuomo» (Filippo M. Giordano). Cominciò così un percorso che avrebbe portato molti di essi ad aderire senza remore alla Resistenza, nei venti mesi in cui le valli diventarono roccaforti partigiane, la val Pellice delle formazioni di Giustizia e Libertà, la val Chisone di quelle “autonome” guidate da Ettore Serafino. Nel tempo del ferro e del fuoco della Resistenza, attraverso l’adesione alle istanze federaliste e al sogno europeista di Altiero Spinelli, si posero le premesse delle loro scelte successive, quelle contro il clericalismo e il confessionalismo istituzionale dei governi democristiani, prima, per l’affermazione dei valori laici e libertari dopo.Da questa storia, lo ripeto, abbiamo molto da imparare. La nostra identità nazionale non ha una base biologica, razziale, ma è il frutto dell’apporto di culture diverse, e anche di religioni altre da quella cattolica. È un progetto che si costruisce di volta in volta con materiali che cambiano nel tempo. E i valdesi sono stati tra i “magnifici costruttori” di questa nostra democrazia laica. Teniamocela stretta. —