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 2024  febbraio 24 Sabato calendario

Intervista ad Alessandra Mussolini

 Lei, nipote del Duce, diretta da Ettore Scola in uno dei capolavori del cinema antifascista, Una giornata particolare. Ricordi?
«Tanti. Con Scola c’era un grande affetto. Era molto legato a zia Sophia (Loren, ndr), durante le riprese stavano sempre insieme, affiatatissimi. In quel film c’è un errore, causato da me e mia mamma, che era venuta sul set. Un giorno stavo malissimo, tosse e mal di gola, faceva freddo e mi mise addosso un loden, che però era decisamente anacronistico per l’epoca in cui era ambientata la pellicola. Una scena di me col loden sfuggì a tutti, dalla segretaria di edizione al montatore. E finì dentro il film».
Con Alberto Sordi, nel Tassinaro.
«Sordi era un grande. Feci il provino, mi volle subito. Il film fu una faticaccia perché la produzione voleva risparmiare sulle pose e Alberto, che era anche il regista, ci fece girare tutte le scene notturne in un’unica sera».
Perché non continuò con la carriera nel cinema?
«Perché non mi prendevano mai. Dopo ogni provino le risposte erano: troppo bella, troppo brutta, troppo alta, troppo magra, occhi troppo chiari. Il vero troppo forse era il cognome».
Insinua o ha le prove?
«Dino Risi me lo disse in faccia. “Tu vuoi fare il cinema con quegli occhi che ricordano tuo nonno? Almeno cambiati il cognome!”».
Le diede qualche suggerimento?
«Zero».
Niente?
«No, no, mi suggerì di farmi chiamare Alessandra Zero».
E lei?
«Col ca...!».
Detto a Risi o solo pensato?
«Gielo dissi proprio».
E lui?
«Rispose “è una tua scelta”. Che poi, se pure mi fossi cambiata il cognome, non sarebbe cambiato nulla. Avrebbero detto “guarda ‘sta vigliacca, pure il nome si cambia”. Poi quando le cose non vanno e non funzionano, non ti puoi mica incaponire. Chiusi col cinema, mi iscrissi a Lettere, dove però c’erano sempre troppo casini e troppe manifestazioni, quindi a Medicina».
Altro buco nell’acqua?
«Mi sono laureata nel 1994 e ancora oggi pago la quota all’Ordine dei medici. Dopo il master in angiologia, capitava che un paziente aprisse gli occhi dopo un ecodoppler dei tronchi sovraortici, guardasse verso di me e dicesse: “La Mussolini qui? Che è, una candid camera?”».
Era già in politica.
«In Parlamento incontravo l’avvocato Agnelli, appena nominato senatore a vita, che con me era molto garbato. Il Movimento sociale mi mandò a sfidare Bassolino a Napoli e fu un successo incredibile. Io e Bassolino arrivammo al ballottaggio lasciando fuori la vecchia Dc».
Ne parla come di un alleato. In realtà lui divenne sindaco e lei venne sconfitta.
«Adoravo Bassolino, avevamo molte cose in comune. Fosse stato possibile, avrei costruito una grande coalizione con lui in consiglio comunale. Mo’ si parla tanto di fluidità; politicamente ero fluida già all’epoca».
Tutto questo è successo dopo. Prima, Alessandra Mussolini è stata una bambina cresciuta in una famiglia tanto celebre quanto turbolenta. Il papà Romano, jazzista figlio di Benito, tradiva la mamma Maria Scicolone, figlia della musicista Romilda Villani, inizialmente non riconosciuta dal padre naturale Riccardo Scicolone, nonché sorella di Sophia Loren. Un intreccio familiare a cui l’eurodeputata ha restituito una forma sentimentale col libro «Il gioco del buio», appena uscito per Minerva. Il tradimento sarebbe rientrato pubblicamente nella vita dell’eurodeputata quando il marito Mauro Floriani è risultato coinvolto nel caso delle squillo dei Parioli. Recentemente Alessandra Mussolini ha detto che cose del genere non si perdonano. «In questo libro c’è scritto chiaramente: i tradimenti nella vita ci sono sempre».
Che bambina è stata?
«Spaventata, non toccavo cibo. Violenza fisica non ce n’era ma così era forse persino peggio, a casa erano litigi continui, senza sosta. Partivano dalla cucina e arrivavano in sala da pranzo, innescati spesso da nonna Romilda che attaccava mia mamma. Tanto nonna aveva costruito con zia Sophia, quanto poi ha distrutto con mia mamma».
Sua zia, Sophia Loren, era presente nelle vostre vite?
«In giro per il mondo o nella favolosa villa di Marino, comunque faceva vita a sé. Aveva sposato un uomo, Carlo Ponti, decisamente austero rispetto a noi, freddo, arido. Comunque, parte dei soldi che zia aveva guadagnato con Quo vadis li diede a mia nonna perché comprasse il cognome “Scicolone” anche per mia mamma».
Prego?
«Riccardo Scicolone, di cui mia nonna era stata amante, aveva riconosciuto zia Sofia, dandole il suo cognome, ma non mia mamma, che infatti portava il cognome di nonna, Villani. Lo pagarono per dare il cognome anche a mia mamma. La somma esatta non l’ho mai saputa ma so che comunque era una bella cifra. In ogni caso penso di averlo visto due volte, non sapevo neanche se con la sua famiglia vivesse a Roma o meno, non lo nominavamo mai».
L’altro nonno, il Duce, lo nominavate?
«Frequentavo durante le vacanze Villa Carpegna ma la mia infanzia e in generale la mia vita le ho trascorse col ramo Scicolone, non col ramo Mussolini. Vuole chiedermi dei cimeli di nonno Benito?».
Ne possiede?
«Le rispondo come faccio quando me lo chiedono in privato: sono io il cimelio, un cimelio vivente, ho respirato quell’aria, porto il cognome».
Suo papà, Romano, parlava del padre?
«Mai. Per lui esisteva la musica, era un artista, viveva come gli artisti. Un piacione, tanti viaggi, tante donne, pochi soldi».
Eravate poveri?
«Mamma si faceva fare credito dai negozianti di piazza Monte Gennaro, quartiere Montesacro, dove abitavamo a Roma; papà sbarcava il lunario coi concerti, faceva quel che poteva, magari prestava soldi agli amici ma in tasca non aveva mai niente. Io e mia sorella ci scambiavamo i vestiti».
Le liti da che cosa venivano innescate?
«Nonna, che era stata musicista anche lei, beccava i tradimenti di mio papà e li riferiva perfidamente a mia mamma. Mamma se la prendeva con papà. Papà faceva quello che fanno gli uomini di solito: negava, negava, negava. Magari era domenica, nonna per dispetto versava mestolate di ragù bollente nei piatti e lanciava cotolette che friggeva fino a farle diventare pietre».
Ricordi felici?
«Due o tre al massimo. Una giornata al luna park dell’Eur, una domenica nel lettone a guardare Stanlio e Ollio in pigiama tutti assieme, più il gioco del buio che dà il titolo al libro, che facevamo con mio papà nella piccola casa in cui abitavamo».
Sua nonna, sua mamma e suo papà non smisero mai di litigare?
«Un giorno mamma andò a operarsi di calcoli a Ginevra, un’operazione seria. Noi eravamo rimasti a Roma, da nonna. A un certo punto vado da nonna, che stava litigando col fratello in cucina. E lei, a proposito di mia mamma, mi disse in faccia: “Spero che tua madre muoia sotto i ferri”. Per la rabbia presi un tavolino e lo scaraventai contro la parete. Lei fece una delle sue pose da diva, viveva come se fosse dentro un film, sempre».
Come visse la fine del matrimonio dei suoi genitori, che era iniziato sotto i flash dei rotocalchi?
«Imparando che l’amore è un sentimento che va, viene, a volte ritorna, a volte no. Questione di neurotrasmettitori, non possiamo farci granché».
Perché sua nonna Romilda aveva così tanto protetto la prima figlia Sophia e così poco la seconda, sua madre Maria?
«Con zia aveva fatto tanti sacrifici, aiutandola all’inizio della sua carriera nel cinema. Poi arrivò mia mamma, il matrimonio principesco con Romano Mussolini, i rotocalchi: pensò che a lei stessa non sarebbe rimasto nulla. Nonna Romilda viveva nella rabbia e nel rancore, mamma rinunciava a tutto, papà viveva di musica e dei suoi amori clandestini. E, in fondo a tutto, due bambine, io e mia sorella Eli, a vivere tra le urla e a chiederci sempre: “Possibile che debba andare sempre tutto così?”».