Avvenire, 23 febbraio 2024
Gershwin, cent’anni di Rapsodia
«Mi capita spesso di sentire musica nel cuore stesso del rumore». Ecco, con le sue parole, raccontata la genesi di Rhapsody in Blue di George Gershwin. New York, Aeolian Hall, 12 febbraio 1924, cent’anni fa. Nasce una musica che rimarrà cifra del Novecento, che non poteva venire al mondo prima, né in altro luogo. La serata – a rileggere i documenti, le notizie – aveva uno scopo preciso: Paul Whiteman, il direttore d’orchestra, commissionò a Gershwin più che una musica un “esperimento”. La locandina di quel concerto, in cui si suona anche ma non solo Rhapsody in Blue, dice esattamente così: «An Experiment in modern Music». L’ obiettivo è dimostrare «i passi da gigante compiuti nella musica popolare dal jazz dissonante, che è apparso dal nulla circa dieci anni fa, fino alla melodiosa musica attuale». L’Aeolian Hall non era un jazz club, né un locale alternativo. Inaugurata nel 1912 all’interno di un grattacielo tra Quinta e Sesta strada, nel cuore della ricca Manhattan abitata da americani bianchi, la sala era stata definita dal New York Times “il tempio della musica”. Sinfonie, quartetti, nuove creazioni: musica “seria”, non popular, non “jazz dissonante”. Nel 1924 Gershwin ha 26 anni: figlio di ebrei russi immigrati – il cognome del padre era Gershowitz – è cresciuto nel Lower East Side, ha frequentato le scuole pubbliche, ha ascoltato le musiche più diverse e ha studiato seriamente, alternando le partiture di Debussy e Ravel, e forse anche di Arnold Schoenberg o perlomeno dei suoi scritti teorici come Il manuale di armonia, all’ascolto delle prime formazioni jazz e al lavoro come pianista accompagnatore di cantanti. Un nome importante, nella sua formazione, è quello di Will Wodery, afroamericano e arrangiatore per la casa editrice musicale Remick. L’anno prima, il 1923, Gershwin aveva compiuto il primo viaggio in Inghilterra, scoprendo i fermenti vivissimi della musica nuova europea. Gli influssi dunque sono molteplici e, come ha scritto il critico statunitense Alex Ross, «tenere il piede in due scarpe era l’essenza del genio di Gershwin. Condusse sempre una doppia vita: professionista del musical e compositore di concerti, artista intellettuale e intrattenitore popolare, tipico ragazzo americano e “negro dalla pelle bianca”». L’ultima definizione è utile a capire l’essenza, particolarissima, di Rhapsody in blue.
Rapsodia è parola cara alla tradizione classica – Brahms, Liszt, Dvorak, Bartok, Rachmaninov, Ravel, Enescu … ne hanno scritte e ne scriveranno molte – con la quale si intende una composizione non troppo estesa, concepita in un solo movimento e con molta libertà. Poi quel blue, che si presta a una doppia interpretazione. Un riferimento a Claude Debussy, che nell’associare musica a colori e impressioni visive, aveva detto “i bemolle sono blu”, oppure una citazione della blue note, che caratterizza la scala musicale blues? Un intervallo (tecnicamente: di quarta eccedente) che nella sua ambiguità dissonante genera un sentimento di nostalgia, di evocazione triste facile da associare all’origine afroamericana del blues. Sarà pure un «tenere il piede in due staffe», ma Gershwin compie così un’operazione culturalmente originale e ispirata a quei valori di democrazia, di uguaglianza, di dialogo che gli furono sempre cari e che intendeva esprimere anche nella musica non, come si dice oggi con corriva banalizzazione, “contaminando” i generi, ma esprimendo una nuova identità figlia di diversi stimoli. Non è questa l’essenza migliore, quando riesce ad emergere e prevalere, degli Stati Uniti e del loro ruolo nella storia della civiltà? E sarà Gershwin nel 1935, soltanto due anni prima della precoce scomparsa, a comporre la prima American folk opera, ambientata all’interno di una comunità afro-americana nell’immaginario, ma credibilissimo, borgo di Catfish Row nella Carolina del Sud: nasceva Porgy and Bess.
Esiste una meravigliosa registrazione del 1927 di Rhapsody in Blue; creata per un disco a 78 giri della RCA vaga oggi nelle piattaforme digitali e restituisce il suono dei primi interpreti. Pianista è lo stesso Gershwin con l’orchestra di Paul Whiteman. Il trillo iniziale del clarinetto e la sua scala ascendente diventa una risata, uno sberleffo, un gioco dove è difficile distinguere quando finiscono le parole e quando inizia la musica. Quel suono non è soltanto un canto, ma una lingua, un parlato. E un invito, al pianoforte, a rispondere. Mentre suona quello che era il suo strumento, Gershwin improvvisa: difficile prevedere che tempi prenderà, quanto insisterà nelle note ribattute, quando e come si svilupperà il dialogo con l’orchestra. C’è un mood fatto di gusto e di misura, di sguardi e sberleffi (fondamentale l’uso della tromba con sordina, tipico del jazz) lontano mille miglia da certe interpretazioni muscolari- brillanti oggi prevalenti, e prive di quel gusto, lieve e complice, per l’improvvisazione. L’iniziale condivisa felicità si stempera, quando appare il secondo motivo affidato al pianoforte, in un lirismo che Gershwin avrà appreso ascoltando i languori dell’opera italiana e che restituisce senza eccessi veristi, ma con elegante misura. Quella sera all’Aeolian Hall erano presenti vere celebrità del mondo classico: il direttore Leopold Stokowski, i violinisti Jascha Heifetz e Fritz Kreisler, il compositore Sergej Rachmaninov, il pianista Leopold Godowski, tutti europei, britannici, austriaci, russi, immigrati come Gershwin e tutti d’accordo, dopo l’ascolto, nell’individuare in quella musica una strada possibile da percorrere. Quell’“esperimento di musica moderna” si ripeterà nel 1928 al ritorno di Gershwin a New York da un nuovo viaggio europeo: è Un americano a Parigi, che molti nessi collegano a Rhapsody in blue, per quella stessa gioia di condividere nella musica dei momenti felici. È il lascito più generoso di quel “negro dalla pelle bianca” che riuscì ad affascinare gli uni e gli altri, facendo dimenticare, per un po’, quale sia il colore della nostra pelle.