Avvenire, 23 febbraio 2024
Cibo e svaghi dei Romani fra servi e dèi
Raramente le mostre volte a documentare la vita e l’arte dei popoli del passato si soffermano, nella selezione dei documenti e dei reperti e nella relativa analisi storico-artistica e sociologica, sulle testimonianze dei ceti più umili e della popolazione meno abbiente. Ci si è mossi quasi sempre, nel momento della ricerca, nell’ambito delle rappresentanze elitarie, anche perché i luoghi dei benestanti, di cui restano più frequentemente importanti tracce fisiche e pubbliche e private narrazioni, appaiono i più significativi e rivelativi di una determinata società e di una specifica cultura.
Una mostra in corso a Pompei capovolge una tale logica ricognitiva, puntando a una lettura delle classi popolari dell’antica città vesuviana; di coloro che, pure invisibili nella storia ufficiale, di fatto ne costituivano il fondamentale tessuto umano e demografico. Una mostra, precisano nella introduzione al catalogo i curatori Silvia Martina Bertesago e Gabriel Zuchtriegel, quest’ultimo direttore degli scavi di Pompei, fondata non solo su di un cambiamento di prospettiva analitica, e neppure su di una lettura della società pompeiana focalizzata soltanto sul lavoro e sui mestieri, il che riporterebbe inevitabilmente a un’analisi gerarchica delle categorie sociali, ma animata dall’intento di testimoniare che anche i gruppi non-elitari partecipavano, nel senso più ampio, alla “cultura” della città. Una mostra che vuole essere un atto di memoria, scrivono ancora i curatori, uno sforzo di immedesimazione, fondato nel rispetto dell’uomo e della sua vita. Che tale analisi venga compiuta a Pompei ha un senso, in considerazione della straordinarietà del sito, che consente di recuperare indizi altrimenti irreperibili della storia, cristallizzata negli istanti dell’immane tragedia. Si è puntata la lente ricognitiva su un materiale senza dubbio più esiguo e più povero, secondo i canoni estetici tradizionali, ma anche imprevisto e inesplorato. Tant’è che il fulcro della mostra non è dato tanto dai reperti archeologici quanto dai contesti in cui essi sono stati rinvenuti.
Non è un caso che uno degli spazi più significativi dell’esposizione sia costituito da tre umili stanze, ambienti di vita e di lavoro, ricostruite grazie alla tecnica dei calchi, con la vista commovente di umili suppellettili e dei lettini su cui riposavano gli schiavi, adulti e bambini. «“L’altra Pompei” racconta una bellezza diversa da quella abituale, classica e marmorea – ha scritto il direttore – e propone invece l’estetica della vita quotidiana, degli oggetti e delle immagini che circondavano la gente comune».
Le sezioni della mostra sono sette, al loro allestimento hanno collaborato simbolicamente gli stessi operatori della Soprintendenza pompeiana, a sottolineare il senso di una indagine collettiva, vissuta tra partecipazione e analisi. Circa trecento i reperti esposti, più tre installazioni multimediali, collocati lungo il braccio Ovest della Palestra Grande del Parco Archeologico. Le sezioni riguardano l’infanzia, le attività quotidiane, l’alimentazione, i rapporti personali e con il mondo esterno, i costumi e gli svaghi, la fede religiosa e l’aldilà. Alcuni approfondimenti espositivi sono di grande interesse, come quello proposto nella sezione dedicata al regime alimentare dei ceti più bassi, un regime povero e poco variato, ben lontano da quello rappresentato in tante pitture parietali, in cui si ostentano i prodotti prelibati della terra e del mare. La vita dei servi è approfondita anche nei suoi aspetti più grotteschi. Sono esposti, per esempio, i cippi che venivano utilizzati dai padroni per punire gli schiavi che contravvenivano alle norme della famiglia. Interessanti le sezioni dedicate all’abbigliamento specifico dei ceti più umili e alla esperienza religiosa, quest’ultima approfondita nell’analisi dei culti maggiormente coltivati, come quelli di Dionisio e Iside, espressi in modo semplice, connessi alla possibilità di cambiamento, alla promessa di una nuova vita.
L’allestimento utilizza colori vivaci, il rosso soprattutto, che simbolicamente richiama la lava infuocata e la drammatica eruzione del 79 d.C. Notevoli le animazioni, intese a “ridare vita” a personaggi comuni, un oste, una schiava, con i loro nomi e i loro sentimenti, rendendoli a distanza di quasi duemila anni protagonisti di una nuova storia, spesso, e superficialmente, dimenticata.