la Repubblica, 23 febbraio 2024
Intervista a Ye Chun
Ye Chun vive negli Stati Uniti dal 1999 ma è nata a Luoyang, una città di sette milioni di abitanti situata alla confluenza del Fiume Giallo con il Luo. Si è messa in luce con la raccolta di poesie Lantern Puzzle prima di dedicarsi alla narrativa, sia nella forma breve del racconto che del romanzo: dopo Peach Tree in the Sea, scritto nella madrelingua, si è affermata come traduttrice, facendo conoscere in Cina autori quali Galway Kinnell e negli Stati Uniti Hai Zi e Li-Young Lee. È diventata quindi docente di scrittura creativa a Providence e lo scorso anno ha scritto in inglese Cani di paglia nell’universo, in uscita in Italia per Neri Pozza.
Mi sono dilungato su alcuni dettagli biografici perché non sarebbe possibile apprezzare questo romanzo, potente e in alcuni tratti struggente, ignorando la vicenda esistenziale dell’autrice, caratterizzata da un imprescindibile legame con la propria terra e una continua ricerca espressiva, che l’ha vista percorrere, con la stessa sincerità e abnegazione, diverse forme espressive.
Tradotto dall’inglese da Maddalena Togliani, Cani di paglia nell’universo conferma una rivisitazione di strutture classiche da parte di alcuni degli scrittori più validi del momento: si pensi all’Impostore di Zadie Smith, o anche a Middlesex di Jeffrey Eugenides, capostipite di questa riscoperta.
Ovviamente la vicenda è diversissima sia sul piano dell’ambientazione che dei personaggi, e ha per protagonista Sixiang; una bambina di dieci anni che durante la carestia del 1876 viene venduta dalla nonna a trafficanti di minori che la portano in California. Nonostante il dolore e la scoperta di una terra ostile, la piccola, il cui nome significa “ricorda la casa”, rifiuta di essere un cane di paglia, definizione delle vittime sacrificali, e si mette alla ricerca del padre Guifeng, trasferito in America prima che lei nascesse per lavorare alla costruzione delle ferrovie.
Scopre così l’abominio del razzismo mentre compaiono altri personaggi: l’amante del padre, dalla personalità forte e volitiva, e un sacerdote taoista che predica il distacco dalle cose terrene. La ricerca è costellata da avvenimenti drammatici: abusi sessuali, dipendenza dall’oppio, maltrattamenti e violenza nel lavoro, per non parlare delle pagine dedicate alla vita nei bordelli e l’amputazione di una gamba subita da Guifeng dopo una ferita da arma da fuoco. È un mondo in cui un personaggio parla dei cinesi definendoli “tutti uguali”, auspicando che “brucino e muoiano”.
«Ho fatto molte ricerche» racconta nella sua casa di Providence «e quanto è avvenuto nei confronti della comunità cinese è terribile. Eppure gli immigrati sono stati l’ossatura di questo paese e spesso hanno dato la vita perché diventasse una potenza credendo nella promessa di libertà».
Negli ultimi anni c’è stata una reazione veemente agli episodi di razzismo nei confronti degli asiatici: sta cambiando qualcosa?
«Troppo poco. C’è sicuramente più consapevolezza, ma l’animo umano non cambia».
Il razzismo è qualcosa di cui non ci libereremo mai?
«Purtroppo sì: gli esseri umani hanno una tendenza a includere chi somiglia e a escludere chi è diverso. Ma insieme a ogni forma di discriminazione c’è anche il lavoro silenzioso di molta gente, come il sacerdote che ho raccontato nel libro».
Il primo capitolo è intitolato Verso la terra degli esseri perduti: è così che considera gli Stati Uniti?
«La frase è da intendere in generale per ogni luogo nel quale si vive avendo perso le proprie radici».
Per chi non conosce il taoismo il titolo appare misterioso.
«Proviene dal Dao De Jing: “I cieli e la terra non scelgono e vedono tutto come cani di paglia”. La mia interpretazione di questo verso ambiguo è che a differenza degli esseri umani, il cielo e la terra non amano o odiano. Ogni cosa ha un ciclo di ascesa e declino. E per quanto riguarda i cani di paglia penso agli alberi di Natale, che utilizziamo per celebrare un momento e poi buttiamo».
Quanto c’è di personale nella vicenda raccontata?
«Il padre del mio bisnonno venne dalla Cina per lavorare nelle ferrovie come Guifeng, e costruì con le proprie mani una casa in California. Io sono un’emigrante di prima generazione e ho voluto ripercorrere la sua storia, cercando di capire cosa è cambiato. Ovviamente il mio percorso è molto differente da quello di Sixiang, ma da quando sono diventata madre mi sono chiesta quanto possa essere atroce la separazione da una figlia e quanto una bambina posso soffrire in una situazione come quella del libro».
L’unica possibilità di sopravvivenza sembra adattarsi alle nuove condizioni di vita.
«È inevitabilmente così, con la consapevolezza che le pressioni sociali possono distruggerti. Ma a differenza di quanto avviene con gli animali e le piante, gli esseri umani devono trascendere il livello di semplice sopravvivenza: è proprio questo a renderli umani».
Il libro ha una struttura classica, da romanzo ottocentesco alla Thomas Hardy.
«È una scelta precisa, nata però dalla lettura del Dono di Toni Morrison, la quale mi ha suggerito anche una scelta più moderna: la prospettiva di diversi personaggi».
Ritiene che questo ritorno al classico sia una tendenza dei nostri tempi?
«Vedo molti esempi e credo sia una reazione al minimalismo: non viviamo tempi di piccole cose e piccoli sentimenti».
Il libro
Cani di paglia nell’universo di Ye Chun (Neri Pozza, traduzione di Maddalena Togliani, pagg. 320, euro 18)