la Repubblica, 23 febbraio 2024
Roma antica e il culto per gli alberi
“Vissero i fiori e l’erbe / vissero i boschi un dì”. Sono versi di una celebre canzone di Giacomo Leopardi, La primavera o delle favole antiche, in cui l’empito preromantico del poeta rievoca un mitico passato in cui erbe, fiori, boschi si animavano delle presenze umane e divine da cui erano pervasi. Nella sua ultima, affascinante fatica Mario Lentano ha dunque ripreso il celebre verso del poeta e lo ha trasformato in una domanda, facendone insieme il titolo del suo libro: Vissero i boschi un dì?. E la risposta è più che affermativa.
Per gli antichi, infatti, fra la natura vegetale e la dimensione umana – la “vita” di noi, uomini e donne – non si ergeva quel muro invalicabile che ancora oggi si percepisce nel sentire comune. Questi due regni stavano piuttosto in un meraviglioso rapporto di continuità, che permetteva di trascorrere senza scosse dalla pianta all’umano e viceversa. Lo mostrano prima di tutto i miti che popolano l’immaginario dei Greci e dei Romani, con gli uomini dell’età del bronzo che, secondo Esiodo, nacquero dai frassini; o con i primitivi abitanti del Lazio – gli Aborigeni – che secondo Virgilio erano discesi dagli alberi di rovere.
Ed ecco che Lentano, conformemente al sottotitolo del suo lavoro (La vita culturale degli alberi nella Roma antica) mette subito in opera le categorie dell’antropologia del mondo antico, per farci notare che il frassino era il legno considerato dai Greci il più duro, tanto da essere impiegato per costruire le lance – materia dunque ideale per dar origine a uomini come quelli dell’età del bronzo, stirpe guerriera. Mentre il rovere, il tronco della quercia, da cui erano discesi i primi, duri, forti, abitanti del Lazio, era legno non solo solidissimo, ma sacro a Giove.
Il mito costruisce, esplora, inverte, si compiace di giocare con le categorie della cultura. Ed eccolo così raccontare non solo di uomini nati dagli alberi ma anche di esseri umani, donne, a loro volta mutate in alberi, come avvenne a Mirra – che già trasformata in tronco partorì, attraverso una fenditura della corteccia, il piccolo Adone – a Dafne che divenne alloro, alle Eliadi, sorelle di Fetonte, mutate in pioppi.
Ma l’affascinante esplorazione di Lentano, condotta con un’impeccabile analisi delle fonti unita a un’invidiabile felicità espressiva, continua. Perché non solo il mito, anche i naturalisti antichi confermano senza tentennamenti la continuità fra il regno vegetale e il mondo umano.
Meglio d’ogni altro ce lo mostra l’enciclopedia di Plinio il vecchio (I secolo), secondo cui «il corpo degli alberi, come quello di tutti gli altri esseri viventi, è formato dalla pelle, dal sangue, dalla carne, dai nervi, dalle vene, dalle ossa, dal midollo. La corteccia svolge le funzioni della pelle… al di sotto di essa si trova la carne, al disotto della carne le ossa, cioè la parte migliore del legno».
Gli alberi, dunque, sono animali a tutti gli effetti, anzi, sono uomini veri e propri. Tant’è vero che Columella (I secolo), scrittore di agricoltura, enuncia in modo esplicito un popolare parallelo fra piante e umani: quello che corre fra le radici dell’albero e i piedi dell’uomo, fra il tronco e il corpo, fra i rami e le braccia, e così via. Dunque, naturalisti e agronomi ribadiscono analogie e continuità fra piante e animali, fra alberi e umani.
Ma anche i medici non sono da meno, anzi. Già i trattati ippocratici (V – IV a. c.) avevano asserito che «dal principio alla fine l’intero processo di crescita naturale delle piante della terra è pressoché identico a quello dell’essere umano». A sua volta il grande medico di età imperiale, Galeno (II secolo), affermerà che nelle prime fasi del suo sviluppo l’embrione è più simile a una pianta che a un animale, come tutti gli organismi viventi che derivano la loro generazione da un seme; mentre sottolinea che le radici sotterranee dell’albero corrispondono nel feto allo sviluppo di arterie e vene. E poi, forse singolare a dirsi, c’è la questione dell’ombelico.
Plutarco (I – II secolo) era un grande intellettuale, curioso dei costumi propri ed altrui: tanto da essere uno fra i principali aspiranti al titolo di padre dell’antropologia. Dunque, in una delle sue Questioni Romane si pone questa domanda: perché a Roma, per dare un nome ai bambini, si aspettava fino al nono giorno per i maschi, e all’ottavo per le femmine? Ed ecco la risposta: «Quanto ai giorni, assumono quelli dopo il settimo… per il cordone ombelicale. Infatti, nella maggior parte dei casi si stacca il settimo giorno, ma finché non si è staccato il bambino rassomiglia più a una pianta che a un essere animato».
Fino al settimo giorno, dunque, il bambino appartiene piuttosto al regno vegetale, è un albero compiuto e un uomo ancora incompiuto – trascorsa una settimana, dallo stadio vegetale il piccolo passerà senza scosse alla compiutezza umana.
In definitiva, dobbiamo accorgerci ancora una volta che gli antichi ci indicano una via da seguire. Sfregiare la natura che ci circonda, mutarla in puro soggetto di sfruttamento economico, insozzarla, significa ferire direttamente “noi”. E se solo ci guardiamo intorno, la natura stessa non si stanca di ripeterci questo ammonimento.
Il libro – “Vissero i boschi un dì?” La vita culturale degli alberi nella Roma antica di Mario Lentano (Carocci, pagg. 248, euro 24)