Robinson, 17 febbraio 2024
Biografia di Nuto Revelli
Chi fu Nuto Revelli, scomparso nella sua Cuneo giusto vent’anni fa? Innanzitutto, come ogni cittadino della Provincia Granda – secondo l’immagine di Giovanni Arpino – «un Robinson che dovunque va ricomincia daccapo l’esame di se stesso, delle possibilità che il nuovo ambiente gli concede».Militare, formatosi all’Accademia di Modena, conseguendo il voto massimo, venti ventesimi, «in attitudine militare e carattere», a Nuto Revelli tenente degli alpini toccherà in sorte, come “nuovo ambiente”, la Russia, dal battesimo di fuoco, il 19 settembre 1942, alla Ritirata, nel gennaio del 1943.Arruolato nella guerra fascista e, quindi, arruolatosi nella guerra partigiana, Nuto Revelli, ufficiale e scrittore, testimonierà sulla pagina i due tempi, «attraverso – si imporrà – il punto di vista di chi quegli anni li ha vissuti», considerando «una storia che vale poco o niente, una storia falsa, sbagliata», quella in cui i combattenti «sono sempre e soltanto numeri».Era in corso Brunet la casa-studio dove Revelli stese i suoi libri. Nella Cuneo di Duccio Galimberti, di Dante Livio Bianco (dalla sua banda, “Italia Libera”, a metà marzo 1944 nascerà la formazione, la IV, di cui Nuto assumerà il comando), di Luigi Pareyson, il filosofo azionista che raccomandava a Pietro Chiodi: «Bisogna andare il più possibile verso sinistra senza compromettere la libertà».Era, Nuto Revelli, il ritratto di venti impavidi mesi contro il nazifascismo. Quale sigillo il naso, perduto non stranamente, come nella Pietroburgo di Gogol, ma andando a sbattere, in moto, contro alcune piastre di mortaio: cinque giorni di coma, otto interventi di chirurgia plastica. A differenza del maggiore Kovalev non lo riavrà più, al suo posto, modellato come tale, una costola.Da Le due guerre aLa strada del davai, da Mai tardi aL’ultimo fronte, è folto il de bello di Nuto Revelli. Rivelandosi – gli renderà omaggio il “provinciale” Giorgio Bocca – «uno storico da collocare nella cultura piemontese che ha per maestro Luigi Einaudi, il professore che cercò per tutta la vita di scrivere in un italiano senza aggettivi, scarno, essenziale».È il medesimo stile, l’eguale urgenza morale, nonché disposizione umana prima che umanistica, delle ulteriori prove di Revelli. A svettare l’affresco di vita contadina Il mondo dei vinti ( a seguire L’anello forte).L’autobiografia lunga un secolo – duecentosettanta testimonianze registrate con il magnetofono – di una civiltà piagata dalle guerre, dalla malora, dalla fenogliana consapevolezza che «tutto il male che capita su queste Langhe la causa è la forte ignoranza che abbiamo», il gorgo dell’industrializzazione, la cecità e la grettezza e l’ignavia delle classi dirigenti di ogni epoca (un rappresentante del Partito dei Contadini nell’era democristiana: «Siamo tornati al tempo della trippa, quando i liberali davano le cinque lire per il voto: “Vai a mangiar la trippa”. Quando ci sono le elezioni ci aumentano di duemila lire le pensioni, e così comprano la classe»).Tra i lettori ideali del Mondo dei vinti,Galante Garrone e Jemolo. I due storici non esitano a riconoscere l’onestà dello storico Revelli, per esempio – è il suo punctum dolens – di fronte alla diffidenza contadina ( o addirittura alla chiusura) verso la Resistenza. Osserverà Nuto: «Quando si dice che la nostra guerra partigiana era “guerra di popolo” non si sbaglia, non si pecca di trionfalismo. Ma se non vogliamo che anche questa formula diventi uno slogan vuoto, una frase di comodo, dobbiamo cercarne la verifica, restituendo un contenuto esatto ai due termini dell’equazione. “Guerra di popolo” non vuol dire popolazioni coinvolte, ma popolazioni protagoniste della Storia».Su di un “vinto” in particolare si chinò Nuto Revelli, Il prete giusto, al secolo don Raimondo Viale, con “un’aspirazione alla libertà” che gli varrà infine la sospensione a divinis. Un’esistenza “crocifissa”, dal seminario alle omelie “cristiane” nella parrocchia di Borgo San Dalmazzo, dalla dittatura alla guerra civile, alle centinaia di ebrei soccorsi e salvati, meritando il riconoscimento di Giusto d’Israele.Borgo San Dalmazzo riappare nell’inchiesta narrativa alla Sciascia Il disperso di Marburg, il tedesco buono, il cavaliere solitario che ogni giorno, superato il sottopassaggio della ferrovia Cuneo- Borgo, s’inoltrava nell’aperta campagna, una mattina venendo ucciso: si chiamava Rudolf, identificandolo il suo detective gli chiuse gli occhi.Nuto Revelli avrebbe voluto concludere la sua parabola di scrittore civile rievocando il decennio successivo al 1945, quando, in molti, era viva l’illusione che il fascismo fosse per sempre estinto. Come epigrafe dell’estremo lavoro l’interrogativo che già prima del 25 aprile angustiava Dante Livio Bianco: «Ci toccherà, sia pure in modi diversi, nuovamente subire?».Concludendo Le due guerre nel 2003 Nuto Revelli non nasconderà la sua amarezza: «La situazione di oggi. Le cinque stragi impunite, le cinque stragi nere, delle quali continuiamo a non saperne nulla» ( da piazza Fontana a piazza della Loggia, ndr). Chissà se gli fu di conforto rileggere le parole di un “vinto”: «Che cosa ne penso del fascismo di oggi? Non trionferà più, almeno qui da noi. Nel meridione non so. Qui da noi il fascismo ha procurato troppi danni, troppe sventure. Il fascismo di oggi è solo il risveglio della morte».