Robinson, 17 febbraio 2024
Partita a tennis sul Titanic
Epoi arrivò un protagonista: Jannik Sinner. Nell’euforia generale qualcuno lo ha considerato un personaggio romanzesco. In realtà il tennista venuto dallo sci non ha nulla di letterario. È pura geometria, in campo e fuori. Studia e poi applica il sistema più breve per passare da A a B, dove i due punti rappresentano angoli della superficie di gioco o posizioni nella classifica Atp. La sua traiettoria esclude tutto ciò che rallenta l’andatura sul percorso, che si tratti di un avversario a rete, di una olimpiade o di una comparsata su un palco nazional- popolare. Se guardandolo giocare ci sembra di cogliere una trama letteraria il merito non è suo, ma del gioco in sé. Il tennis è narrativo per definizione: è una lenta costruzione che lascia sempre spazio al colpo di scena, dissemina i break come cliffhangers, consente ai personaggi di rivelare, capitolo dopo capitolo, set dopo set, una personalità sorprendente,capovolgendo le aspettative. Sotto di due set a zero, dichiaratamente “morto”, Sinner risorge e non concede più niente a Mevdevev, che sembrava il signore incontrastato della partita.C’è nel regolamento stesso più di un aspetto che si adegua alle caratteristiche del destino: l’imprevedibilità, per dirne una; l’ingiustizia, per dirne un’altra. La finale di Wimbledon 2019 tra Djokovic e Federer è considerata da alcuni appassionati “la prova dell’inesistenza di Dio”. Tutti i dati statistici furono a favore dello svizzero, eppure vinse il serbo. I teologi possono stare tranquilli: non c’è minore ingiustizia nell’esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, dove l’uomo considerato più potente della Terra è scelto da una minoranza di cittadini, spesso da una minoranza di votanti.La fatalità del tennis è una calamita per gli scrittori e ha prodotto due miti. Non due capolavori, due miti. Il primo è Il tennis come esperienza religiosa, il saggio di David Foster Wallace. Il secondo è Open,la biografia di Agassi scritta da J. R. Moehringer. Entrambi hanno provocato le critiche di Gianni Clerici. Al netto della insofferenza nutrita dai giornalisti sportivi verso gli scrittori ( categorie flessibili per Clerici e pochi altri) su che cosa si basavano? Nel caso di Foster Wallace sul fatto che avrebbe avuto basato il proprio testo su un’esperienza insufficiente finendo per scrivere “cose incomprensibili”. Questi però erano il metodo e il marchio di DFW. Quanto a Open è stata e ancora è il sacro Graal della letteratura sportiva, la biografia a cui tutti gli editori fanno riferimento quando ne commissionano una. “Potrebbe, dovrebbe essere l’Open di Phelps”, “di Iverson”, “di Zidane”. Che cosa ne diceva Clerici? Sosteneva di aver letto altre due biografie autorizzate di Agassi in cui la storia era diversa. Dunque, quel che ha fatto di Open un modello è l’aggiunta di fantasia. È aver trasformato una storia di successo in una di sofferenza.Anche il tennis ha bisogno di finzione? E se fosse, da decenni, pura fiction, come suggerisce il video Season 52, girato durante il torneo di Melbourne, in cui i più grandi atleti “confessano” di essere in realtà attori impegnati in una specie di wrestling con la racchetta? Tutte le “più grandi partite di sempre” sarebbero in realtà frutto di una sceneggiatura, che inevitabilmente prevede una rimonta da due set a zero, qualche match point annullato, una durata straordinaria. Bastasse questo anche Sinner-Mevdevev sarebbe un romanzo. Ad alzare il livello è un terzo giocatore: la Storia che incrocia la partita. Ci sono due esempi, con diverso esito letterario.Il primo è quello dei tennisti sul Titanic, il match infinito tra Richard Norris Williams e Karl Behr. Entrambi statunitensi si trovavano sul transatlantico il 14 aprile 1912. Il primo, insieme con il padre, rientrava in ritardo dall’Europa, avendo contratto il morbillo. Il secondo, con la fidanzata, cercava di conquistarne la famiglia contraria al matrimonio. Dopo la collisione con l’iceberg, Behr salì su una scialuppa e remò per portare in salvo sé stesso e gli altri. Williams invece rimase a bordo, liberò un passeggero intrappolato abbattendo la porta della sua cabina (nel film di James Cameron lo fa Leo Di Caprio), vide morire il padre colpito da un fumaiolo crollato, restò in acqua per ore prima di essere ripescato. Gli venne proposta l’amputazione delle gambe, ma rifiutò dicendo: “Mi serviranno!”. Poche settimane più tardi era in campo a Boston, proprio contro Behr. Come Sinner con Mevdevev, quest’ultimo andò sotto di due set, ma poi vinse gli altri tre. La rivincita avvenne due anni più tardi, nella cornice più importante: gli Us Open. Vinse l’eroe del Titanic e proseguì conquistando il torneo. Su questa rivalità tra due, che in realtà erano amici, è stato scritto un libro (Titanic, the tennis story, di Lindsay Gibb) che spreca la grande occasione. Bisognerebbe tradurlo liberamente, se solo fosse possibile. Contiene però un’intuizione: attribuisce al più esperto Behr il timore di battere Williams nel confronto decisivo perché frenato dal senso di colpa, lui che aveva avuto in sorte la scialuppa e non la tragedia.Il secondo esempio è quello del barone Gottfried von Cramm, omosessuale nella Germania nazista, ma protetto da Goring, che di tennis era appassionato. La sfida in Coppa Davis che l’oppose all’americano Don Budge ebbe la benedizione della leggenda (telefonata di Hitler prima dell’inizio) e quella della metafora (dittatura contro democrazia). Non occorre dire che si andò al quinto set e che Budge rimontò da due set a zero, poi da un game a quattro, chiudendo sull’otto a sei. Molto più riuscita del caso precedente la trasposizione letteraria (Terribile splendore, di Marshall Jon Fisher). Se è vero che il comico è tragedia più tempo, a un grande romanzo sul tennis servono tragedia più gioco. Partita. Incontro.