Tuttolibri, 17 febbraio 2024
Paolo Nori e la Russia
Paolo Nori, 60 anni, biografo di Dostoevskij, traduttore dei grandi russi, docente di letteratura russa, innamorato della Russia. Come vive dopo il 24 febbraio 2022, quando la Russia ha attaccato l’Ucraina?«Per me è un periodo molto complicato. Sono andato a presentare il mio libro su Anna Achmatova con Dacia Maraini. A cena è arrivato un signore, vestito da politico, ho poi scoperto che era l’ex sindaco diventato parlamentare. Ci siamo presentati, Dacia gli ha detto che avevo scritto un libro su Anna Achmatova, lui ha fatto una faccia come se non sapesse chi era, ma è una cosa normale. E io gli ho detto che era una grande poetessa russa e che ero un appassionato di letteratura russa. Lui ha cambiato faccia e mi ha detto: queste cose, in questo periodo, bisognerebbe dirle a bassa voce».E lei cosa gli ha risposto?«Che io non faccio altro che dirle ad alta voce. E racconto anche questo imbarazzo, questo dolore di sentire parlare così di una parte fondamentale della mia vita. Io ho conosciuto la mamma di mia figlia perché dovevo andare in Russia. Una grande parte dei miei affetti… e poi la mia testa è piena di robe russe. Se io penso alle due donne più importanti della mia vita, io le penso con l’inizio di una poesia di Chlebnikov: “Le ragazze, quelle che camminano, con stivali di occhi neri, sui fiori del mio cuore”. Le parole per i miei sentimenti me le dà la letteratura russa. E siccome sono anche un po’ bastian contrario sono sempre più legato a questa letteratura».Ma dopo il 24 febbraio 2022, avrebbe scritto gli stessi libri?«Sì, intanto ne ho scritti altri due in cui tanto si parla di quello che è successo tra Russia e Ucraina. Ho presentato quello sulla Achmatova una volta a Pisa e c’era Guido Carpi che insegna letteratura russa a Napoli. E lui a un certo punto mi dice: diranno che siamo filorussi, che è una parolaccia. E io ho risposto: se lo dicono di me, fanno bene, perché io sono innamorato della cultura russa, di questa lingua straordinaria e di questa gente straordinaria. Se qualcuno pensa che essere filo russo vuol dire essere a favore del governo russo è come se qualcuno immaginasse che le migliaia di studenti che vengono ogni anno in Italia per studiare storia dell’arte, ci vengono per il premier di turno. Io non ho nessuna ammirazione per i governi russi. E questo non cambia niente».Lei è stato una delle prime vittime di questo clima, quando all’università Bicocca a Milano hanno annullato un suo corso su Dostoevskij. Cos’ha provato?«La mia è stata una, ma ce ne sono state tante censure alla cultura russa, tanto più insensate se noi pensiamo che questi scrittori sono stati nei secoli i principali nemici del potere russo. Davanti alla sede del Kgb di Pietroburgo un amico mi ha raccontato che un ex funzionario aveva proposto di fare di quell’edificio un monumento letterario. Gli hanno chiesto: come mai? E lui ha risposto: sono passati tutti di qua. E aveva ragione. Tutti i più grandi, sono passati di lì e qualcuno non ne è uscito. In una situazione come quella di oggi, per ostacolare il potere russo, bisognerebbe diffonderla la cultura russa, non proibirla. Quindi il 24 febbraio, nella mia relazione con la mia Russia non ha cambiato niente».E per lei cos’ha rappresentato quella censura?«Per me e per il libro è stata positiva: hanno cancellato quattro conferenze su quattro romanzi di Dostoevskij in Bicocca che avevo accettato di fare per spirito di servizio per venti persone, sono diventate centoquattro. E questo dimostra una cosa che mi ha insegnato la letteratura russa e cioè che la letteratura è più forte della censura e di ogni dittatura. Se ti metti contro Dostoevskij, perdi».Ma intanto censure e condanne sono di nuovo all’ordine del giorno nella Russia di Putin. La letteratura continua a fare opposizione?«Io ho l’impressione che adesso i nemici principali del potere non siano tanto gli scrittori e i poeti quanto i giornalisti. Se vai in Russia i libri di quelli che non condividono sono segnati, sono divisi dagli altri, ma l’ultima volta che ci sono stato si trovavano ancora, segno che la letteratura non è più così tanto al centro dell’interesse dei russi».Perché leggere i russi, oggi?«Perché la letteratura ha questa caratteristica di essere un po’ sempre contemporanea. Ho appena riletto Anna Karenina e mi dice delle cose sulla mia relazione con mia figlia, è come se fosse stato scritto oggi. Le cose che mi fanno paura sono quelle che vale la spesa di conoscere. Il primo libro russo che ho letto è stato Delitto e castigo, quando avevo quindici anni. All’inizio Raskolnikov si chiede, ma io chi sono, un insetto o Napoleone? Mi sono fermato e mi sono chiesto: e io, quanto valgo? E mi sono reso conto che quel libro scritto cento anni prima a tre mila chilometri di qui mi avesse aperto una ferita che non aveva smesso tanto presto di sanguinare. Il titolo del libro è una risposta».La sua biografia di Dostoevskij, infatti, si intitola “Sanguina ancora”. Perché?«Ecco, quando leggo i romanzi russi sento il sangue che scorre nelle vene. E questa è una cosa preziosa, inestimabile. La sensazione di essere vivi spesso coincide con una ferita e va bene, io non voglio godere, non sono un edonista reaganiano. Io sono qualcos’altro. La Russia mi piace perché fa paura: io sono contemporaneamente filorusso e russofobo. Sono un soggetto strano. Mi dispiace, ma sono così».Perché la letteratura russa è unica? Gramsci diceva perché il popolo russo è quello che ha sofferto di più.«Una volta, nel ‘93, ero a Mosca, dovevo traslocare, da una casa in periferia a una casa in centro. La mia insegnante di russo mi ha detto che c’era un appartamento in un condominio dove avevano abitato personaggi eminenti, anche la figlia di Stalin e c’era un romanzo intitolato La casa sul lungo fiume di Trifonov che io non avevo mai letto. Le ho chiesto se l’aveva letto lei e mi ha risposto: per forza l’ho letto, era proibito. I libri proibiti erano i libri che bisognava leggere. Perché succeda questa cosa è un mistero. Tra l’Ottocento e la fine del Novecento c’era davvero una letteratura originale, un romanzo russo si riconosceva, come se ci fosse un’altra geometria, un’altra gravità».È il mistero dell’anima russa, senza speranza?«Ho un pessimo rapporto con quella parola, credo che ci sia la disperazione, ma la disperazione bella. ?echov dice che un ottimista è un pessimista male informato. C’è una parola che mi piace molto di Angelo Maria Ripellino, un grande slavista. Era malato ai polmoni, era in un sanatorio in Cecoslovacchia e di sé e degli altri che erano ricoverati lì diceva che erano dei “nonostante”. A me i russi sembrano tutti dei nonostante, nonostante la vita e non credo che noi siamo tanto meglio».Ma perché i russi che leggono tanto, non si ribellano?«Quando è uscito il libro su Anna Achmatova, (Vi avverto che vivo per l’ultima volta, Mondadori, ndr) dove si parla anche della guerra, un po’ di gente mi ha scritto che non dicevo la cosa principale e cioè che i russi dovevano ribaltare il potere e fare la democrazia. E io ho pensato che quando nel ’38 da noi ci sono state le leggi razziali, non c’è stata una rivolta. È comodo parlare da qua al caldo. Lì, adesso, se tu esci per strada con un cartello “No alla guerra”, come minimo sono nove giorni di prigione. È complicato fare la rivoluzione in Russia e non credo che i russi siano peggio di noi perché li conosco».Come sono i russi?«Hanno una capacità di far sentire i sentimenti che innamora e io sono davvero innamorato di quella gente lì. Capisco che uno che non c’è mai stato sia stranito da questo mio amore. Ma uno che c’è stato lo può capire.».Quando si parla di letteratura russa si finisce poi sempre su Dostevskij, Tolstoij, ?echov … Ma chi sono per lei i grandi del Novecento?«I poeti cosiddetti futuristi. E poi Anna Achmatova, Bulgakov, Serghei Dovlatov. I russi hanno anche un grande Novecento. Una giornata di Ivan Denisovi? di Solženicyn è un libro memorabile che distrugge la struttura sovietica senza mai parlare del potere sovietico. I sovietici sono nominati solo una volta e gli si fa un complimento, quando uno dei prigionieri scopre che il sole dovrebbe stare a mezzogiorno ma è l’una, chiede ma chi è stato? E gli rispondono: sono stati i sovietici, comandano anche lì. Ma per me la letteratura russa finisce nel 1990».Lei torna ogni anno in Russia. Cosa ha visto l’ultima volta che c’è stato? Quando finisce questa guerra insensata?«Due anni fa a Pietroburgo ho conosciuto una ragazza che era appena uscita di prigione perché era una di quelle che erano andate sulla prospettiva Nevskij con il cartello “no alla guerra”. I suoi genitori erano filo putiniani. Lei non riusciva più a parlare con sua mamma e con suo papà. Ed era distrutta da questa cosa, aveva gli anfibi ai piedi con un laccio azzurro e uno giallo, i colori dell’Ucraina. Ci siamo visti in un caffè di Pietroburgo con una grande vetrata davanti e mi diceva che ha degli amici che la pensano come lei e lavorano per lo stato russo. E che si occupano della propaganda perché hanno bisogno. E poi ne conosce tanti che sono come il suo babbo e la sua mamma. L’ultima cosa che le ho chiesto è stato come finisce. E lei è scoppiata a piangere. Questa guerra a me mi fa piangere, è una guerra insensata, ogni russo ha un parente in Ucraina. Non lo so, la cosa che mi auguro è che finisca presto e presto è sempre troppo tardi».