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 2024  febbraio 21 Mercoledì calendario

Dagli strip club agli Oscar. Vera Gemma (figlia di Giuliano) racconta “il lavoro più bello del mondo” tra uomini sottomessi, soldi a palate, amori e dolori di una “bitch” arrivata a Hollywood

Da mettere a puntate

Vivo a Los Angeles da un anno e non sono produttiva economicamente. In pratica, non guadagno soldi. Non sono qui per inseguire il sogno di diventare un’attrice di Hollywood, sono sempre molto lucida sulle ambizioni e consapevole del fatto che l’unica cosa che posso inseguire a Los Angeles è la vita, non il successo. D’altronde, di inseguire il successo non sono stata mai davvero capace, mentre di fare della mia vita il film che più mi piace sì. In questo sono maestra. Ho sempre pensato che se un’artista non vive la vita non ha niente da raccontare, inoltre, se mai avrò successo come attrice, dovrò iniziare dall’Italia o comunque dall’Europa per poi eventualmente arrivare in America, non il contrario. So fin troppo bene come funziona nel business del cinema, ci sono nata e cresciuta, mia madre sui set mi allattava. Quel che è certo è che in America già ci sto, quindi non posso più spendere soldi e basta. Non voglio finire i risparmi che ho da parte. In quel caso poche persone verrebbero ad aiutarmi, forse nessuno. Vivendo qui finalmente da donna libera e non da “figlia di Giuliano Gemma” (sebbene libera lo fossi, nel senso più nobile del termine, già in Italia) sono disposta a rimettermi in gioco e a fare qualsiasi lavoro, non ho snobismi di nessun tipo. Ho ottenuto un visto O-1 grazie alla mia storia artistica in Italia. Nonostante nel mio paese non abbia conquistato ancora grandi traguardi (anni dopo vincerò il Leone d’oro a Venezia come migliore attrice e avrò un film di cui sono protagonista candidato all’Oscar), l’America grazie a diverse recensioni che ho avuto per i miei spettacoli teatrali, due libri pubblicati e tanta gavetta, mi riconosce degna di un visto per persone che hanno combinato qualcosa di artistico nel proprio paese. Il visto O-1 mi dà il diritto di vivere e lavorare negli States per tre anni senza l’obbligo di dovermene tornare a casa dopo tre mesi come un qualunque turista. Ho tutto il coraggio e l’intraprendenza che servono per vivere qui, ho già vissuto a Parigi e sopravvissuto all’esasperato nazionalismo dei francesi, non sarà l’America, né Obama (allora presidente) a intimorirmi. Anzi, Obama mi sta simpatico e vorrei stringergli la mano. Mi manca solo questo fatidico lavoro e devo trovarlo a tutti i costi, mi servono entrate per poter vivere serenamente, prendermi cura del mio corpo e della mia psiche e soprattutto per pagare la metà dell’affitto a West Hollywood, quartiere piuttosto costoso per quanto relativamente sicuro, sebbene qui di sicuro ci sia solo la costosissima assicurazione sulla salute, senza la quale se ti rompi un braccio nemmeno te lo ingessano.
 
Abito in un condominio a Larrabee Street con Marzia, una ragazza italiana che al contrario di me vuole fare l’attrice a Hollywood (non ci riuscirà mai, ma questa è un’altra storia). I suoi ricchi genitori sostengono economicamente questo sogno mentre a me mio padre ha detto: “Ti sei mangiata una marea di soldi, adesso vai a fare quello che credi. Vai a rubare, inventati la vita, sei forte, intelligente e per fortuna in buona salute. Tifo per te, ma da me non vedi più una Lira”. D’altronde mio padre, pur essendo una star internazionale, viene dalla strada, dalla povertà, dormiva in una brandina in corridoio da piccolo perché non aveva la sua stanza e suo padre si mangiava tutto al gioco, così mi sta dando con questa grande lezione di vita che mi resterà impressa per sempre e mi renderà ancora più guerriera. Così una mattina di settembre la guerriera si sveglia armata di buona volontà e decide di farsi a piedi tutta Santa Monica Boulevard e di entrare in ogni singolo ristorante per cercare lavoro come cameriera. Premetto che siamo in America, non in Italia, e qui possono fare i camerieri anche grandi artisti che magari hanno già lavorato in film importanti, o magari talentuosi musicisti che alternano il comporre o cercare produttori con l’arte di arrangiarsi. Insomma, qui tutti possono fare tutto e nessuno ti giudica. La società americana è troppo individualista e in lotta per un’ascesa per perdere tempo a giudicare. Los Angeles, in particolare, è come una contea dove ognuno combatte la propria guerra da solo, per questo si dice che chi riesce a sopravvivere a Los Angeles riuscirà a sopravvivere nel mondo intero. Non che sia triste vivere qui, ma è diverso, non ci sono complici né ci si piange addosso, non si può essere depressi o le persone si allontanano da te, qui si gioca il gioco e le giornate corrono così veloci che ti sembra durino al massimo tre ore. È una società frenetica, dove gli esseri umani sembrano addestrati a farcela a non arrendersi mai e la lotta fa parte del Dna di ogni singolo individuo. Ti educano a essere capace di diventare il migliore e a farcela, insomma, è un mondo competitivo che se migliori ti incoraggia, che premia ogni singola capacità e non conosce invidia. A Los Angeles vali per quello che fai e che produci e quasi mai per quello che dici. È uno stano contrasto tra sogni e concretezza. Sei libero di inseguire un sogno, lo fanno tutti, ma soprattutto sei pregato di realizzarlo. Non si scherza, insomma. Sembra tutto una festa, una vacanza, il sole, le palme, le luci, ma se non fai qualcosa di concreto sei un emarginato, non esisti. E qui tutti vogliono esistere, tutti vogliono produrre ed essere qualcuno. Io sono abbastanza umile da iniziare dal basso. Pur di vivere in questa giungla sarei pronta a fare un doppio salto mortale, roba che mio padre faceva dal trampolino. Non ho mai paura di buttarmi e affrontare esperienze nuove. Qui mi sento diversa. Quando cammino per le strade della California sono rapida, i miei passi sono veloci, mi guardo alle spalle, non passeggio, vado veloce e sto attenta a tutto. Dopo un po’ che vivi qui impari ad avere i radar. È una città pericolosa dove può succedere di tutto in qualsiasi momento. Quando fai la spesa da Trader Joe’s, il mio supermercato preferito, vedi le facce della gente sulle confezioni del latte con scritto “missing”, e per la strada vedi volti di ogni tipo e nazionalità. Qui trovi il mondo intero, tante storie, troppi sogni forse e tanti pazzi, sguardi ambigui, gente alla deriva che parla da sola o si è drogata troppo, personaggi di vita che ti impongono di guardarti alle spalle in ogni momento. A Los Angeles chiunque può comprare una pistola (basta registrarla), possedere un’arma è assolutamente legale e ce l’hanno in molti. Moltissimi. Quasi tutti. I liceali spesso se la portano a scuola di nascosto e molte donne ce l’hanno nella borsa per difesa personale. Los Angeles è Pulp Fiction di Quentin Tarantino sul serio. C’è poco da passeggiare qui: cammina veloce Vera, tira fuori quel sangue della strada che ti appartiene, non rinunciare al tuo animo gangster e trova questo cazzo di lavoro oggi. Nessuno sembra credere che io possa fare la cameriera, anche perché, per “tranquillizzare” le persone diffidenti sulla mia provenienza, mostro l’album con raccolti articoli di giornale, critiche varie degli spettacoli teatrali che ho fatto, foto, interviste, un dossier ben ordinato con cui ho ottenuto quel visto per personaggi famosi all’estero. Non so per quale motivo i proprietari o i direttori dei ristoranti mi dicono quasi tutti “ma dai, tu vuoi lavorare qui? E poi ci vieni?”. E io: “Ma certo che si!”. Sembrano sospettosi. Forse fare la cameriera non è nel mio destino. Non mi ha mai spaventato stancarmi o lavorare per ore ma le cose non sembrano andare nel verso giusto. Torno a casa sconsolata e con i piedi che mi fanno male per aver camminato troppo. Santa Monica è una strada lunghissima e io me la sono fatta quasi tutta. Una volta a casa  in salotto trovo Luca, il fratello di Marzia arrivato dall’Italia per passare del tempo con sua sorella, che come molti di quelli che arrivano qua per la prima volta è felice e eccitato di essere a Los Angeles. D’altronde anch’io lo ero appena arrivata e lo sono ancora dopo tanti mesi. Luca sembra essere determinato ad andare stasera stessa in un locale storico di striptease, un Body Shop su Sunset Boulevard. Ci dice di non essere mai stato in un locale di lap dance e che in questo in particolare hanno lavorato Courtney Love e altre artiste che oggi sono delle star internazionali. È un posto famosissimo nel mondo e non è solo per uomini allupati, ma per donne, turisti e per tutti i tipi di persone. Io che amo tutto in questa vita e sono curiosa di tutto mi sto già preparando, mi entusiasma l’idea di vedere un locale di questo tipo e Luca mi rassicura dicendomi che non è affatto un posto losco. Qualora lo fosse meglio, rispondo. Sono sempre stata attratta da ciò che è losco, da quello che ha a che fare con il sesso e con il peccato in generale perché trovo nel peccato una grande onestà e un intrinseco coraggio. Qualunque forma di trasgressione per me è sempre più onesta di ciò che per la società o gli ideali comuni è giusto, corretto. Quando sento il termine “perbene” mi innervosisco molto perché sento subito un moralismo forzato, un giudizio nascosto, un’affermazione assolutamente gratuita e fuori luogo. Chi è “perbene”, ammesso che significhi qualcosa di preciso, lo è e basta, non ha bisogno di incanalarsi in questo ruolo rassicurante e forzato convincendo tutti che sia vero. Indosso un vestito piuttosto sex perché non voglio essere quella meno sexy di tutte. Suppongo che lì le donne siano belle e nude e non sarò certo io quella più “perbene”. Adattarmi agli ambienti come un camaleonte è uno dei miei grandi talenti, quindi assente da qualunque forma di volgarità (la volgarità non mi appartiene) ed elegantemente femmina ancora una volta non mostrerò nessun timore nello sfoggiare una certa sensualità, anzi, ostenterò con fierezza di essere al cento per cento italiana e al cento per cento puttana camminando a testa alta sui tacchi come un personaggio in cerca d’autore, pronta a ispirare un film. Arriviamo di fronte al locale, le mura esterne sono dipinte egregiamente con sagome di donne nude di profilo che si appoggiano ad un palo. Fuori c’è scritto “Open 24 hours” e sotto una grande luce si accende ad intermittenza: “Girls Girls Girls”. Al centro la grande insegna luminosa “The Body Shop”. Si capisce che è un locale mitico, già da fuori ne resto immediatamente affascinata. Una volta entrata, però, me ne innamoro definitivamente, mi ricorda il film “Carlito’s Way, quando Al Pacino entra nello strip club scoprendo che la sua fidanzata lavora lì. Ogni ragazza ha il suo stile, i suoi costumi e la sua musica, ognuna sembra interpretare il ruolo che più le piace e appartiene: c’è quella più aggressiva, vestita in pelle nera, quella più bambina con i codini ed il kilt scozzese e quella angelica in abito trasparente celeste chiaro. Tutte sono talentuose, in grado di ballare e di fare acrobazie con il palo, ma anche nel modo di muoversi ed esibirsi sono diverse, ognuna ha il suo stile e tutte si spogliano piano piano. Una volta nude, però, restano sul palco per massimo un minuto e poi scompaiono. Poi tornano tra il pubblico più vestite. Con atteggiamento abile e distaccato propongono ai clienti una danza privata e ci cascano quasi tutti perché le vedo continuamente prendere questi signori per mano e raggiungere una stanzetta segreta dove io, che pendo dalle loro labbra, non posso andare. Sono estremamente affascinata da quasi tutte le ragazze, perché ai miei occhi – e suppongo soprattutto a quelli degli uomini – rappresentano il sogno, la sensualità, la meraviglia del peccato... il mio personale concetto di “grande bellezza”, insomma. Essere donne, a mio avviso, non è un limite ma un immenso potere da sfruttare. Un dono che dovrebbe essere un vanto, una magia talmente forte da dare la vita. Non è giusto lamentarsi e dire che le donne sono sempre penalizzate, perché se vogliono possono prendersi davvero tutto, persino la tua anima. Le donne sono demoni che rendono paradisiaca la vita. E come Eva, non rinunciano quasi mai a mordere la mela. Ho già abbandonato da diversi minuti Marzia e suo fratello, mi aggiro per il locale da sola. Nella mia testa ho un progetto già chiaro da mettere in atto. Il Body Shop è diventato l’unico posto dove vorrei lavorare al mondo. Il desiderio di appartenere a questo luogo, di farne parte, è immediato, irrefrenabile e assoluto. Quel locale rappresenta la concretizzazione di tutte le mie ambizioni, il giusto rifugio dove poter mostrare il mio talento, la mia creatività e, aggiungo, il mio bisogno disperato di essere amata ed accettata.
 
Quando io voglio qualcosa non scherzo, in questo lo spirito della città mi somiglia, questa vita non la osservo mai affascinata come una spettatrice, divento quasi sempre protagonista anche del film che nessuno mai avrebbe il coraggio di interpretare. Una bella ragazza mora mi sorride, sembra quasi avermi capita e mi dice “I like your style!”. Guarda il mio vestito rosso con ammirazione, le sorrido a mia volta e prendo la palla al balzo: “Who’s the boss here?”, (le chiedo chi comanda qui) e lei mi accompagna senza battere ciglio da un signore piuttosto anziano che si chiama Charlie e ha l’aria di uno che la sa lunga sulla vita e ne ha viste di tutti i colori. Avrà sessant’anni, forse qualcosa di più, ma i suoi occhi sono furbi, vivi e giovani come se lo sguardo attento non si sia potuto mai permettere di invecchiare. Provo per quest’uomo un’istintiva simpatia, sebbene lui non sia particolarmente amichevole con me. “Cosa vuoi?”, mi chiede. E io senza esitare: “Come si fa a lavorare qui?”. Mi guarda dalla testa ai piedi attentamente mentre io, dandomi un tono, abbasso le spalle, tiro in dentro la pancia e mi appoggio su un piede con una mano sui fianchi. Poi mi dice: “Vieni domani pomeriggio alle tre che facciamo le audizioni”. E se ne va. Oh my God, mi sento come se l’audizione fosse con Francis Ford Coppola. Sono emozionatissima e mi passano nella mente mille dubbi sulla mia esibizione: ce la devo fare cazzo! Io – devo – lavorare – lì! La mattina dopo confesso finalmente a Marzia e a suo fratello che ho un’audizione per la mia nuova carriera da stripper. Marzia è tutta eccitata, ma solo perché questa è una di quelle volte in cui io rappresento quel coraggio che lei non ha, sono la tana libera tutti ormai, lo so, quella che ti azzera le frustrazioni, che ti fa credere di aver vinto senza che tu debba giocare, solo guardarti il film mentre ti limi le unghie. Tutta agitata mi dice che devo andare subito a Hollywood Boulevard dove ci sono tutti i negozi per le stripper e comprarmi un costume pazzesco per il numero. Io quei negozi li avevo già visti, mi piacevano molto, sebbene allora non pensassi che mi sarei dovuta sbrigare a comprare qualcosa di sexy per l’audizione nel più famoso club di striptease della città. In fin dei conti però con me non si sa mai. Posso sorprendere persino me stessa. Scelgo un negozio tra tanti, dove poi tornerò per anni, anche quando la mia vita sarà completamente cambiata. Il negozio si chiama Lady Love. Il proprietario è uno scaltro signore con gli occhiali che mi affronta subito: “Facciamo anche cose su misura, se ti piace qualcosa possiamo fartelo con qualunque fantasia, stoffa o colore. Facciamo a mano anche questi abiti di catene in metallo”, dice mostrandomene uno tutto d’oro, bellissimo. Lo ringrazio, mi aggiro per il negozio e mi concentro a guardarmi intorno. Non voglio niente che somigli a quello che ho visto addosso alle altre ragazze. Un punto di forza sarà essere diversa. Così, dopo alcune prove, scelgo un abito giallo, lungo fino ai piedi e con un enorme spacco davanti e diversi strass cuciti sopra. Mi sta benissimo ed è d’accordo anche il proprietario che ne ha viste di bitch, infatti mi mostra un’agenda strapiena di foto di donne sexy che negli anni gli hanno fatto una dedica o scritto un pensiero. A Los Angeles ogni condominio ha una palestra aperta 24 ore su 24 e io ho fatto tanto di quel tapis roulant nelle ore più disparate del giorno e della notte che ho un fisico impeccabile. Qui poi mangio poco e cammino molto. Il sole della California mi abbronza. E sulla mia pelle scura quell’abito dal colore acceso è perfetto. È un abito da diva, ha una sua eleganza indiscutibile pur essendo sexy, faccio una rapida prova e mi accorgo che si sfila in un attimo, bastano movimenti facili. D’altronde sono abiti fatti apposta, non ci mettono di certo quaranta bottoni. Non siamo ad “abito da sposa cercasi” o robe del genere. Lo compro pagandolo 170 dollari e vado a prendermi un cappuccino da Starbucks, dopodiché sono pronta per il provino, sebbene mi tremino un po’ le gambe. Arrivata al Body Shop penso che anche in pieno giorno il locale non perde il suo fascino. Fuori il sole, dentro le luci colorate blu e rosa nel buio dei sogni. Charlie mi dice: “Ah sei venuta!”. E lo fa con un sorrisetto fiero, soddisfatto come a dire “quello che dice lo fa”. E continua: “Sali le scale, vatti a cambiare e parla con il dj”. Al piano di sopra c’è un mondo nascosto: un dj che mette la musica e un enorme camerino con tante postazioni, una vicina all’altra, specchi dappertutto e profumo di vaniglia nell’aria. Il dj si chiama Sunny e mi chiede che musica voglio per la mia esibizione. In pochi secondi penso a qualcosa che non ho già sentito... un pezzo vintage che ricordi il meglio della disco music, gli chiedo se ha Donna Summer. E lui: “Certo, ho tutto!”. Could It Be Magic? E lui ce l’ha davvero. “Bella scelta, amo quella canzone!”, esclama poi. Indosso il mio abito giallo e le tipiche scarpe altissime con doppio fondo tutte trasparenti (che avevo già acquistato e indossato più volte come semplici scarpe da sera) e scendo le scale determinata. Non ho mai fatto la lap dance in vita mia ma ho studiato danza per anni. Mi dico: “Vera, dai tutta te stessa, balla, concentrati su quello che sai fare, ricordati i passi di danza e le coreografie, non pensare a quello che non sai fare, muoviti e fai bene quello che sai”. Consiglio che mi sento di dare a tutti in qualunque campo: mai pensare a quello che ti manca, ma ostentare ciò che ti appartiene. Parte la musica, afferro il palo della lap dance e inizio a muovermi sinuosamente con tutta la sensualità possibile e capisco in un attimo che essere sexy è un’energia che emani, significa sentirsi bella come nessuna al mondo. Vuol dire non aver paura di sedurre, di rappresentare l’idea più generosa di te, quella nobile puttana che si dà senza riserve e vuole farti sognare un mondo migliore dove tu, uomo, sei adorato, omaggiato, servito e riverito e io sono il tuo oggetto del desiderio. Essere questo oggetto mi fa sentire libera, come se questo mestiere di stripper ce l’avessi nel sangue. Non ho nessun pudore nello spogliarmi lentamente. Non ho mai visto peccato in un corpo femminile nudo, forse perché mia madre girava nuda per casa. Continuo a ripetermi inconsciamente che sono bella e potente, che mi amo e mi assolvo, mentre mi spoglio accarezzo sinuosamente i miei fianchi e ballo sicura e felice, mi sento consolata per tutto il non amore che ho subito, cerco un’assoluzione senza confessare i miei peccati perché mi sento innocente e perché so che ad ogni modo pagherò tutto. La musica finisce e io, sudata, ho ancora questi pensieri nella testa. È importante pensare quando si balla, perché il pensiero, se intenso, trasmette qualcosa di forte, sempre. Anche quando faccio l’amore penso. Penso e ti guardo negli occhi. Charlie non batte ciglio, nel frattempo sono entrate diverse ragazze pronte a lavorare, qualcuna si è fermata a guardarmi. Il silenzio dell’attesa mi snerva, ma sento di aver dato il massimo. Poi la sentenza. “Vai in camerino” dice Charlie. “Tu oggi non torni a casa….tu lavori qui!”. Mi viene quasi da piangere e improvvisamente saltello gridando come una bambina che apre i regali di Natale. Una parte di me, la migliore e la peggiore, si ostina a non crescere. So di occupare uno spazio ingombrante da troppo tempo e mentre salgo di nuovo quella scala compiango tutti i poeti e le puttane del mondo ma non ho per loro la soluzione e nemmeno per me spogliarellista inesperta che sussurra la parola “aiuto” al mondo.
 
Ho un lavoro a Los Angeles. Ed è il lavoro più bello del mondo. Una volta in camerino incontro di nuovo la ragazza mora che mi aveva presentato Charlie. Si chiama Leila e mai più mi dimenticherò di lei come di nessuno di quelli che ho conosciuto in quel locale. Le dico che mi hanno presa a lavorare, che non so nulla e di spiegarmi come funziona, sono agitata e impaurita. “Stai calma baby, ti spiego tutto” mi dice. Nel mondo degli strip club c’è, non lo nascondo, una rivalità nel fare più cash possibile, ma all’occorrenza una solidarietà tra donne che poche volte ho ritrovato nella mia vita. È un mondo chiuso, un mondo a parte. Esiste una vita là dentro e dopo ore e ore che stai lì la luce o il buio che sono fuori te li scordi. Tutta la tua esistenza diventa il locale e più guadagni meno riesci a uscire, l’arte si fonde rapidamente con il vizio e la dipendenza è un rifugio in cui conosci le regole. Usi il tuo corpo producendo cash come una slot machine. Non sei obbligata a esibirti mai, decidi tu quando farlo, puoi restare anche un’ora in camerino a chiacchierare o ordinarti del cibo se hai fame, sei libera di gestire il tempo e il lavoro come vuoi, tanto arriva sempre quel momento in cui ti dici “andiamo!”. Poi determinata giochi il gioco dell’energia e decidi tu cosa essere e quanto guadagnare, poi quando decidi di guadagnare tanto cambi il tuo modo di pensare, non provi più sentimenti, diventi quella creatura determinata e desiderabile che decide tutto e sa esattamente sempre cosa fare. È un nobile connubio tra generosità e sfrenato egocentrismo. Sul palco sei una dea e subito diventi dipendente, non tanto dal facile e rapido guadagno (anche da quello, sì) ma dagli sguardi adoranti degli uomini. Dalla superiorità che ti dà sentirti un oggetto del desiderio. È una grandissima menzogna quella che le stripper si sentono usate. Le stripper si sentono onnipotenti, comandano sulla psiche maschile e sono molto molto potenti se vogliono, ti tolgono i soldi che nemmeno te ne accorgi ed è un’arte che si affina, si impara e si perfeziona giorno per giorno. Non è solo una questione di bellezza, certo quella aiuta, ma ci sono stripper bruttine che fanno una marea di soldi e altre bellissime che se ne vanno incazzate. I gusti degli uomini, poi, sono imprevedibili: alcuni amano la bellezza sfrontata, altri la bruttina rassicurante. È comunque tutta una questione di energia, essere vincenti o no. È la forza del pensiero che decidi di avere e di emanare verso gli altri che ti rende più o meno brava, un equilibrio tra perdita e controllo ed una grande perenne sicurezza in te stessa che non può permettersi di nutrire dubbi. Un obbligo ad amarsi ed assolversi come fece Gesù con la Maddalena. Un connubio tra santità e peccato, uno sguardo negli occhi così diretto che è una coltellata di passione. Un potere che sai di possedere e che non ti fai nessuno scrupolo ad usare. Mai in nessun momento, usando questo potere ogni giorno meglio, mi sono sentita usata. Piuttosto mi sono sentita adorata. Mi sono sentita finalmente bella, all’altezza della bellezza di mio padre. E ancora oggi mi manca tantissimo quella sensazione di onnipotenza che mai più in nessuna situazione ho provato così forte. Prendo questo lavoro molto sul serio perché sono professionale in tutto e cerco di capirne da subito i segreti. Leila mi spiega: “Vai sul palco, mettiti d’accordo con le altre ragazze su quando ti vuoi esibire. Fai una o due canzoni a seconda del riscontro che stai avendo... se non lanciano abbastanza soldi sul palco rallenta, smetti, fagli capire che devono pagare o che abbandonerai il palco. Chi ti dà un dollaro è uno stronzo, è irrispettoso, fagli capire che se torna a casa è meglio. Finita la tua esibizione sta a te capire a chi sei piaciuta di più: se qualcuno ti ha guardata insistentemente e dato tanto cash mentre ballavi chiedigli se vuole una danza privata. perché è lì che farai i soldi veri”. Mi gira la testa con tutte queste informazioni. E come funzionano le danze private? Interviene un’altra che si chiama Bibi ed è bionda e formosa: “Allora baby, le danze private funzionano così. Prendi il cliente e te lo porti in una stanzina di quelle sul retro, siete soli tu e lui, una canzone sono 40 dollari. Tu devi ballare solo per lui, ti ci puoi strusciare addosso e essere sinuosa ma attenzione, lui non ti può toccare, i gestori del locale stanno sempre all’erta e controllano tutto in video, ci sono le telecamere, assolutamente niente contatto intimo, niente sesso”. Mi parla come se io volessi farlo. E io: “No, no certo! Ci mancherebbe”. Eppure in seguito mi sono fatta toccare eccome da alcuni clienti che mi piacevano, facendomi beccare da Charlie che urlava e rischiando di essere licenziata. Una tale Lola prosegue la lezione: “Nessuno si accontenta di una sola canzone. Se sei brava non si accorgono del tempo che passa e arrivi come niente a 200 dollari. Possono chiedere anche di passare mezz’ora con te... una volta uno mi ha pagata 2000 dollari solo per parlare. Più sei brava sul palco più danze private ti chiederanno. Appena ti senti pronta scendi, vai e fagli vedere chi sei, baby! Ma prima vado io che sto qui dalle tre e mezza”, conclude. Penso di aver capito tutto, sebbene l’emozione del primo giorno non sia passata. In questo posto entra gente in continuazione a tutte le ore. “Alle 19 si riempie ancora di più”, dice Leila “Perché hanno finito di lavorare e passano allo strip club prima di tornare a casa dalle mogli. Penso a quanto sia più gratificante essere una stripper piuttosto che una moglie. La notte è affollata. Si guadagna il triplo del giorno. Questa regola non varrà per me in seguito, perché io diventerò una stripper famosa per fare tantissimi soldi dalle 12 alle 20. Pochi si spiegheranno come io potessi guadagnare così tanto di giorno, ma questo è un dato di fatto, non lo so, forse perché di giorno ci sono meno ragazze e meno concorrenza o forse perché tanti arriveranno in seguito solo per incontrare me. Il primo giorno di lavoro mi porto a casa 650 dollari e non mi pare vero. Secondo le ragazze non sono neanche tanti, ma comunque battono il cinque e si complimentano con me. Torno a casa, butto tutto quel cash sul letto e lo guardo. Poi inizio a contarlo. E questo momento del cash sul letto da contare diventerà con il tempo un’altra dipendenza. Sono passati anni e ancora mi manca tanto quel rituale del cash sul materasso e quell’immensa soddisfazione nel contare. Mi addormento felice e non vedo l’ora che arrivi il giorno dopo per tornare. So che quello che dico può essere impopolare e difficile da comprendere, ma io ho amato sinceramente e totalmente questo lavoro.
 
Il rapporto con le ragazze, le storie di vita in camerino, donne di tutte le nazionalità e provenienze: al Body Shop poteva lavorare la ricca figlia di papà in cerca di indipendenza o la ragazza messicana disastrata. Ricordo una che aveva dodici cavalli (i cavalli costano) e un’altra dipendente dall’eroina, una campionessa di ginnastica, una che aveva lasciato il mondo del porno, alcune laureate e molte donne già madri, mentre io quando lavoro lì ancora non la sono. Il mio secondo giorno affino l’arte dello striptease, mi metto d’accordo con Bibi che sembra essere bravissima sul palco e ci vediamo al locale all’una, orario piuttosto tranquillo. Le propongo di pagarle il disturbo se mi allena e lei mi insegna a interagire con il palo e prendo molto seriamente le sue lezioni in ogni momento in cui non ci sono clienti e possiamo permetterci di allenarci. In pochi giorni imparo tre mosse e basta con il palo che uso magistralmente facendo credere di fare chissà cosa, alterno passi di danza a frasi ossessive che mi vengono in mente, spesso con il palo non interagisco nemmeno. Quando mi esibisco continuo a formulare pensieri intensi, sono incontrollati e si impossessano di me come se avessi una doppia personalità. Ne ricordo uno che rimarrà ossessivamente nella mia testa: “Giuro su questo mondo sfacciato pronto a prostituirsi per un sorriso che amo la vita e gli esseri umani, amo la musica e gli abbracci. E giuro su questo Dio avvelenato di smog, che un giorno mi amerete anche voi...”. Sono una di quelle meno brave da un punto di vista acrobatico, alcune più che ballerine sono delle vere e proprie atlete e il livello di preparazione è altissimo, d’altronde siamo in America dove bisogna essere bravi o è meglio che te ne vai a spasso. La regola dell’Italia dove ti fanno diventare qualcuno anche se non sei capace di fare niente purché tu sia raccomandata dal politico, dal dirigente o dallo stronzo di turno qui non vale, nemmeno negli strip club. Infatti, pur non essendo un’atleta mi contraddistinguo comunque per personalità, costumi, eleganza, scelta raffinata delle musiche e grande capacità di ottenere danze private. Ricordo di aver detto a un uomo che era indeciso su chi scegliere: “Lo sai qual è la differenza tra me e tutte le altre ragazze? Che loro lo fanno per soldi. Io lo faccio perché mi piace”. In realtà il facile guadagno piace anche a me, ma è molto più forte la voglia di sedurre, i soldi arrivano di conseguenza. Come quando fai l’attrice, deve essere più forte il bisogno di dare emozioni autentiche e oneste del guadagno. Non stai a pensare ai soldi mentre reciti un monologo di Giuseppe Patroni Griffi in teatro. E la mia forza è l’affrontare questo lavoro con rispetto, con serietà da professionista insomma. Avendone, ripeto, totale rispetto. Rispetto che ho per la nudità in ogni sua forma, nel corpo come nell’anima. Non vedo assolutamente peccato nell’essere nuda e mi sento a mio agio nel ballare e pensare, ballare e pensare... Nel giro di tre mesi divento una delle spogliarelliste più pagate di Los Angeles, arrivo a guadagnare 1500 dollari al giorno e lavoro in altri due club famosi, il Crazy Girl e il Seven Veil. Tutti vogliono la bitch che mentre si spoglia pensa troppo. Charlie che ha creduto in me da subito è lì tutti i giorni e nonostante il suo atteggiamento sempre brusco inizio a volergli bene. Conosce tutte le ragazze e possiede un umorismo cinico, a tratti crudele, che a me fa ridere tantissimo: ti saluta dicendoti puntualmente che sei una bitch (che in inglese significa più stronza che puttana) e se ti opponi rispondendo che non è vero ti dice “of corse you are...”. (certo che la sei), ma se sei tu a fargli battute pesanti non si offende mai e ride a sua volta. Ogni tanto dà la possibilità di lavorare a ragazze non bellissime perché ne hanno bisogno e lui di fronte a storie forti non si tira mai indietro, ma poi quelle stesse ragazze non fanno quasi mai una Lira perché non conoscono bene il lavoro, un lavoro fatto di mille segreti ma anche di forza mentale, così sono le prime a rinunciare. Ogni tanto qualcuna arriva piangendo per amore. Mai in questi anni ho conosciuto una spogliarellista furba in amore, mai. Se fossero scaltre nella loro vita privata come lo sono nel club sarebbero tutte in storie felici, invece non è così. La spogliarellista è specializzata come nessuna a trovare uomini che le mangiano i soldi. E questo ne fa capire la generosità, l’ingenuità e l’innocenza, di base sono quasi tutte donne altruiste che vogliono dare felicità agli altri come fosse una missione o un’ossessione, molte con sensi di colpa radicati in un’adolescenza traumatica, al punto che la loro esagerata autostima esplode solo e unicamente sul palco per poi crollare dopo l’esibizione come una casa non abbastanza solida per subire un terremoto. Una volta che mi specializzo nel lavorare in questi tre famosissimi club diventa impensabile per me fare qualunque altro lavoro. Un giorno guadagno e il giorno dopo spendo per spray bronze, manicure, pedicure, massaggi coreani, palestre esclusive e shopping. Devi investire sul tuo corpo, sui tuoi look e sulla tua forma fisica. Se non sei forte e allenata non resisti a ballare per otto ore di seguito. Dopo una giornata di pausa dove mi concedo tutto (tanto i soldi che ho speso li riguadagno) torno a lavorare al Body Shop, sono in camerino che mi sto attaccando le ciglia finte quando Sara, una ragazza Argentina con i capelli rosso fuoco e la voce sempre un po’ troppo alta e squillante, mi grida isterica: “Oh my God! C’è Quentin Tarantino!”. Il tempo breve di realizzare che Quentin è il cliente del locale seduto al piano di sotto pronto a godersi le esibizioni che scappo al bagno con una ciglia sola e mi chiudo dentro a chiave. Resto lì per circa un’ora, ovvero per tutto il tempo in cui Quentin è nel locale. Mi vergogno. Sono già stata a casa sua (vedi articolo precedente su MOW) dove lui mi ha fatto vedere due film di mio padre di cui è grande fan. Mi vergogno a esibirmi di fronte a chi conosco e mi conosce. Con un estraneo il discorso cambia totalmente, ma Quentin no. Non ce la faccio. Io ci lavoro qui ed è una decisione mia che non ho nessuna voglia di condividere con lui che vive nel mito del cinema, perché io invece vivo nel mito della vita vera e non so se sia davvero pronto a capirlo. Per capire certe mie decisioni bisogna essere davvero puri, aperti ed assenti dal giudizio, inoltre mai e poi mai gli farei uno spogliarello: sono timida, timidissima. Una bambina deficiente chiusa a chiave al bagno e rannicchiata su sé stessa, una bambina cattiva che ha paura di diventare cieca per essersi masturbata troppo di nascosto. Un’innocente e colpevole creatura che trema, si nasconde e prova timore per tutto ciò che fa parte della realtà della vita vera al di fuori del locale. Perché la vita vera è fatta di adulti cattivi che giudicano e amano certe realtà solo nei film. Finalmente Quentin se ne va e Charlie mi dice: “Ma dove cazzo stavi?”. Gli dico la verità come faccio sempre su chi sono io, chi è mio padre in Italia, sul fatto che conosco Quentin e sul mio timore di farmi vedere. Charlie mi dice: “E se tuo padre è una star e Quentin Tarantino ti invita a casa sua cosa cazzo ci fai qui? Vattene a lavorare a Hollywood, no?”. Gli rispondo che non posso vivere senza di lui e a Hollywood mi mancherebbe. “Non ti preoccupare” dice “mi dai la metà di tutto quello che guadagni e io vengo con te!”, concludendo con “Just show me the money!”.  Poi mi dà una pacca sulla spalla e mi dice: “You are great!”. Questa è la prima e ultima volta in cui mi farà un complimento, ma in quel “you are great” con uno sguardo sapiente e complice mi fa sentire capita nel profondo e assolta da tutti i peccati del mondo. Mi fa sentire che noi gente di vita ci capiamo e che fare certe scelte è semplicemente il risultato di ciò che siamo, respiriamo e amiamo, che siamo nati e destinati a vivere esperienze di quel tipo. Che tutto ciò che per gli altri è diverso a noi semplicemente somiglia. E che fondamentalmente a noi, di Hollywood, sebbene apprezziamo i bei film, non ce ne frega proprio un cazzo, perché noi siamo già protagonisti da una vita del nostro di film, da cui gli altri prendono ispirazione.
 
Nel frattempo la mia vita diventa un segreto. Quasi nessuno sa quello che faccio. A mio padre ho detto che ballo il tip tap (che ho studiato davvero per anni) in un musical. Non ci crede ma non indaga, la vita è la mia e me la sto cavando. I soli rapporti e scambi che ho sono con Charlie e le mie colleghe. Bibi diventa la mia migliore amica: è simpatica, ha un grande senso dell’umorismo ed è anche molto intelligente, da anni è una delle amanti di Quentin Tarantino (sempre lui) che spesso la chiama per passare delle serate nella sua villa sulle Hills. Una volta, in seguito alla sua ansia di non voler dormire con una donna (tra l’altro in una casa con dieci camere da letto, due saloni, tre uffici, due piscine e un cinema dove se proprio vuoi il tuo spazio lo trovi) l’ha congedata da casa sua ubriaca. Quella sera Bibi è stata arrestata per guida in stato di ebbrezza, uno dei reati più gravi in assoluto in California. Cauzione: ventimila dollari. E ha chiamato Quentin disperata il quale ha pagato la costosa somma senza battere ciglio (e suppongo imparato a ospitare una donna a casa sua). Charlie invece è il mio mentore, un maestro di vita, il suo cinismo vagamente poetico mi ricorda quello del mio amico regista Sergio Citti e ha sempre accompagnato l’opera e le ispirazioni di Pier Paolo Pasolini. Charlie è un “ragazzo di vita” che vuole bene alle donne, è di origini armene. Il business degli strip club (che porta guadagni enormi ai proprietari tra entrate percentuali delle danze private e consumazioni al bar) è in mano alla mafia armena. Nessuno può aprire un locale senza passare per queste famiglie e comunque anche se ci passi non te lo farebbero aprire mai. Al piano di sopra i camerini c’è un ufficio dove ogni tanto il proprietario dei tre principali strip club di Los Angeles passa le serate. Bibi è l’unica che può permettersi di farlo in modo amichevole. Lei con questi mafiosi si prende grandi confidenze, fa loro favori e loro si fidano tutti di quello che dice, sempre. Anzi, ogni tanto la chiamano per avere il punto della situazione su tutto quello che succede al club. Lei è una specie di consigliera, di confidente, ed è anche l’unica che può attaccare il ferro per arricciarsi i capelli vicino al bar e acconciarseli davanti a tutti se le gira. Può arrivare a lavoro a qualunque turno, giorno o notte, le viene permesso di lavorare sempre e può mandare affanculo Charlie se le dice qualcosa che la indispone, infatti litigano sempre. Insomma, Bibi si è presa un certo potere anche perché lavora nei club da più di dieci anni e gode del rispetto dato dal tempo passato chiusa lì. Un po’ come il carcerato che ha la pena più lunga. Ecco, il tipo di solidarietà che c’è tra le stripper lo paragono un po’ a quello tra detenuti. Per ore non si vede la luce né il buio, si vive chiuse lì tra il palco e il camerino e piano piano ci si esterna totalmente dalla vita. Ci si sente diverse, non si vuole parlare più con gente che fa lavori cosiddetti “normali” né si vuole rispondere alle solite stupide domande dei curiosi, di chi eccitato ti tratta come fossi un fenomeno strano e affascinante da analizzare ma anche da cui fuggire a gambe levate. Ho provato a raccontare quello che facevo, mi rispondevano tutti che con il mio talento avrei dovuto provare a fare l’attrice. Cerca la vita e troverai la libertà, cerca il successo e troverai la morte... vorrei rispondere così, ma lo penso e basta senza dirlo mai. D’altronde ho capito che i miei pensieri sono molto più potenti delle parole. Ho lavorato in quei club per due anni e conosciuto persone di ogni tipo: grossi produttori musicali, ragazzi che compivano 18 anni, addii al celibato, uomini di ogni età e classe sociale, di alcuni mi sono anche infatuata e ho chiesto loro di venirmi a prendere quando avevo finito. Alcuni li ho fatti innamorare e anche piangere, altri mi hanno sedotta e abbandonata. Molti, soprattutto nei turni di notte, mi hanno pagata fino a 1000 dollari solo per essere ascoltati perché non avevano nessuno con cui parlare. Ho amato questo lavoro con tutta me stessa e mi sono fatta rispettare e amare dalle mie amiche, per cui ho avuto sempre un consiglio e una parola incoraggiante. Ho sempre voluto tirare fuori il meglio da loro e mai il peggio. Con poca fatica ho ottenuto anche il rispetto dai mafiosi armeni, delinquenti e cattivi che hanno dovuto imparare a rivolgersi a me con una certa gentilezza perché hanno capito che io, come loro, non ero e non sarei stata mai una qualunque. Ricordo di aver detto a uno: “Tu a me non mi parli così” puntandogli il dito in faccia. “A me non interessa come cazzo sei abituato a parlare con le altre, ma tu a me non mi parli così”, e ricordo di averglielo detto con una tale violenza e pacata rabbia da averlo zittito come avessi avuto una pistola in mano. Al punto da aver sentito uscire dalla sua bocca: “Don’t fuck with her”, quando un altro di loro aveva provato a fare lo spiritoso. In pochi momenti della mia vita mi sono sentita felice come in quei due anni perché sono stata e sono ancora una “ragazza di vita”. Quando ho vinto il Leone d’Oro a Venezia come migliore attrice ero felice, ovvio, a parte il fatto che mi sono trovata davanti una platea con gli occhi sbarrati che sembrava dire “Ma come? Ci deve essere un errore...” ed è una felicità che sfugge e dura poco, che a tratti riconosci e in altri momenti ti confonde. Ho trionfato su tutti con il mio premio in mano, su tutto lo snobismo, il perbenismo piccolo borghese e finto intellettuale del mondo. Su questo mondo di ladri che vorrebbero scipparti verità, sangue e madre. Su quest’altalena spinta dal potere, da cui se cadi ti fai male. Un’altalena che mi sono spinta da sola e con le mie gambe.
 
Il mio film Vera oggi è candidato all’Oscar. Sono tornata a Los Angeles per l’Oscar campaign e l’unica che ho chiamato per accompagnarmi alle proiezioni del mio film Vera è stata Bibi. Siamo state a Beverly Hills, alla Soho House e in altri posti molto esclusivi dedicati ai film degli Oscar dove gli spettatori sono i membri dell’Academy, illustri produttori, registi e sceneggiatori di Hollywood che votano per tutti i film candidati. Bibi è arrivata come sempre vestita in modi che definire stravaganti non sarebbe abbastanza, ma io di lei non mi sono mai vergognata. Charlie è morto. Era molto malato e non si è voluto curare. L’unica che gli è stata accanto fino alla fine è stata lei, Bibi. Non era più indipendente Charlie, con gli occhi lucidi mentre lei lo aiutava a pulirsi le ha detto: “Bibi, non diventare vecchia mai, promettimi che non invecchierai mai”. Io, sapendo che non stava bene, l’ho chiamato dall’Italia e ho avuto la fortuna di parlarci un’ultima volta: “You are great” mi ha ribadito. “Non permettere a nessuno di pensare il contrario”. Gli Oscar sono eccitanti e a tratti non posso credere di essere arrivata fino a qui, sono riconoscente alla vita e al fatto di non essermi arresa mai. Il Body Shop resiste ancora, dopo anni chiedo più volte a Bibi di passarci davanti con la macchina... Girls Girls Girls. Sempre quella scritta. Sono felice per la candidatura del film come miglior pellicola straniera e per tutta questa attenzione su di me, è stato eccitante la sera prima vedere il mio volto gigante in un cinema a Beverly Hills in tutti quegli schermi illuminati, lei è estremamente fiera di me e lo sono anche i miei due registi, Tizza Covi e Rainer Frimmel. Nessuno riesce a giustificare in me quella fame mai sazia di vita vera che il cinema non mi darà mai. La differenza tra fare un film e essere quel film è la stessa che c’è tra realtà e finzione. E io la realtà la amo più di qualunque film al mondo, sono pronta a consumarla fino a divorare tutto il successo, gli applausi, le proiezioni e i premi che sto vincendo in tutto il mondo e sono pura, perché non l’ho mai cercato questo cazzo di successo. Sapevo che un giorno, mio malgrado, sarei arrivata in alto perché ognuno nasce con un destino e una missione... cerca la vita e troverai la libertà, cerca il successo e troverai la morte. L’importante è sempre pensare, continuare a pensare... Risuonano ancora nel mio cervello frasi ossessive e poetiche... come quando mi spogliavo. Penso a tutti quelli che aspiravano ad Hollywood e mi guardavano come una perdente, come una che non desiderava abbastanza da questa vita. Tutto ha un disegno giusto nel tempo e io sono sempre la stessa bitch. Affamata di emozioni verità e libertà. Sono ancora là, tana libera tutti. Non so cosa ne sarà di me, se riuscirò mai a pagare il prezzo di questo successo o se scapperò sempre per le strade del mondo alla ricerca di storie sbagliate e circhi lontani. Di fronte a questo enorme schermo del cinema Canon di Beverly Hills mi vedo fin troppo grande e mi trovo fastidiosa... continuo a pensare a Charlie nell’attesa di rispondere alle domande del pubblico una volta finita la proiezione. Guardo il mio film e con la mente parlo con lui. Oh Charlie... Ti rendi conto dove cazzo sono arrivata? Dagli spogliarelli agli Oscar non è proprio da tutti... come al solito una storia da film. Infatti il film in cui sono qui è “Vera”, che è ispirato alla mia vita. Mi viene un sorriso. E mentre il pubblico mi applaude caloroso e vuole che mi alzi in piedi prometto a me stessa che non diventerò mai vecchia. Ricordo le parole di Charlie a Bibi... “Non invecchiare mai”. Ringrazio e provo a godermi tutti questi consensi, i membri dell’Academy non sembrano smettere di applaudire. Una parte di me si protegge, non vuole abituarsi mai a nessuna forma d’amore. Penso: “Tranquillo Charlie, io non invecchierò mai”. E mi commuovo. Stavolta il film sembra essere sfuggito al mio controllo, diventando molto più grande di me. Forse perché da bambina piangevo guardando in Tv la Notte degli Oscar e mi giustificavo con mio padre che mi guardava divertito dicendo: “Piango perché penso a quando ci andrò io”. E ci credevo davvero, anche se tutti ridevano.
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