Corriere della Sera, 21 febbraio 2024
Intervista a Giorgio Assumma
Avevo perso il telefono dell’avvocato Giorgio Assumma. Con poche speranze ho provato quello di un centralone. Mi aspettavo filtri e segretarie. Invece risponde lui personalmente. Sta facendo la passeggiata quotidiana di due ore per prevenire gli acciacchi. «Mi scusi, il mercoledì lo studio è chiuso. Tutte le chiamate finiscono ai cellulari che ho con me. In compenso lo studio è aperto il sabato». Nato a Civitavecchia e poi cresciuto a Roma. Dinastia di medici e di Carabinieri. Lui stesso è stato ufficiale paracadutista dell’Arma. Democristiano conclamato, amato dagli artisti della musica, del cinema e della televisione.
Professore lei per mestiere vive, sotto il profilo legale, le vicende dello spettacolo e dell’informazione. Si può dire che per lei il lavoro sia anche un divertimento?
«Nei miei oltre sessant’anni di professione legale e oltre quaranta di insegnamento universitario, fortunatamente mi sono sempre divertito, talora appassionato. Il contatto con gli artisti è sempre coinvolgente e stimolante. Mi sono trovato spessissimo ad essere partecipe della loro creatività e, quindi, della gioia e della sofferenza che essa comporta».
Con quale dei suoi assistiti ha condiviso particolarmente questa partecipazione?
«Con Lucio Dalla quando mi fece ascoltare il primo provino della canzone “4 marzo 1943”. E con Pino Daniele quando, con la chitarra, improvvisò la traccia melodica di quella che sarebbe divenuta “Napule è”».
Come ha scelto di fare l’avvocato proprio nel settore dello spettacolo?
«Da giovane sognavo di fare il regista cinematografico. Mi aveva affascinato l’assistere a una ripresa di una scenetta di Totò sotto la direzione del grande regista Steno. Mi incantò l’autorità con cui quest’ultimo si relazionava con il grande attore napoletano. Poi un amico di famiglia, Salvatore Scalera, fondatore della Scalera Film, la prima vera industria cinematografica italiana, mi sconsigliò. Non è il tuo caso, mi disse. Tu hai un carattere troppo indipendente. Il regista cinematografico deve, invece, seguire molti padroni, a cominciare dal produttore, per finire con i distributori».
Lei è considerato da molti suoi assistiti un amico piuttosto che un consulente legale. Maurizio Costanzo, intervistato su cosa fosse per lui l’amicizia, rispose: «Bastano due parole. Giorgio Assumma».
«Ho sempre considerato l’amicizia un dovere fondamentale della vita. Anche a costo di subire qualche brutta delusione. Con Costanzo sono stato legato per oltre cinquant’anni, sino alla sua scomparsa. Uniti dalla comune curiosità di ispezionare i protagonisti del mondo che ci circondava. Ci siamo divertiti a smontarli, come fanno i bambini con i giocattoli, per scoprire cosa avessero dentro».
Qual è stato il suo maestro nella professione?
«Mi sono ispirato a mio padre. Era un valente avvocato penalista. Non si stancava di dirmi che dovevo sudare sui libri, studiando ogni giorno. Per diventare un protagonista e non rimanere un semplice osservatore».
Lei ha frequentato, per motivi professionali, uomini importanti della politica e dell’industria, oltre che dello spettacolo. Chi ricorda?
«Francesco Cossiga, che io chiamavo Ciccio, mi svegliava la mattina alle cinque. Una volta per dirmi che aveva dormito male. Edilio Rusconi, il grande editore di periodici e di libri, mi rintracciò attraverso la stazione dei Carabinieri, la notte di ferragosto del 1973. Stavo in villeggiatura a Santa Severa. Non avevo il telefono fisso e non esistevano ancora i cellulari. Voleva che incontrassi il giorno dopo Luchino Visconti per dargli l’incarico di dirigere il film “Gruppo di famiglia in un interno”. Ennio Morricone andava evitato come autista. In una giornata di pioggia intensissima, volle a tutti i costi accompagnarmi alla guida della sua auto, dalla casa in cui abitava sino al mio studio. Una distanza di circa tre chilometri. Prese tre contravvenzioni. Una per direzione vietata».
Sua moglie, Maretta Scoca, avvocato specializzata in diritto di famiglia, è stata deputata alla Camera, per tre legislature, due volte componente del governo come sottosegretaria, prima alla Giustizia poi alla Cultura.
«Aveva sedici anni quando l’ho conosciuta. Abbiamo condiviso insieme ogni momento della nostra vita. Sino alla sua morte. Da parlamentare presentò molti progetti di legge. In particolare quello, divenuto poi legge dello Stato, che impose l’obbligo di esporre la bandiera Italiana negli edifici delle pubbliche istituzioni. Quando la legge fu emanata Enzo Biagi disse “Il tricolore è diventato donna”. Dai più viene ricordata, però, per essere stata, per molti anni, giudice nella trasmissione “Forum” di Mediaset».
Lei nel 2005 è stato eletto presidente della Siae, su unanime designazione degli autori e degli editori italiani. Cosa ricorda di quell’esperienza?
«Accettai l’incarico come una sfida. Bisognava liberare la società da uno stallo pericoloso, in cui giaceva da qualche anno. Ma era necessario anche salvarla dal tentativo della politica di trasformarla in un proprio strumento di potere. Credo di esserci riuscito, anche se con molta fatica. Fui rieletto nel 2009 per un secondo mandato. Non ritenni, però, di proseguire. Tornai a fare l’avvocato a pieno regime. Questa è stata sempre la mia vocazione maggiore».
Si dice che in una trattoria del quartiere Prati di Roma, in una saletta riservata, lei e Maurizio Costanzo avevate la consuetudine di incontrare a pranzo uomini della politica, delle istituzioni e della imprenditoria privata, discutendo con loro anche delle sorti dei nostri governi.
«Si trattava di una sorta di “Maurizio Costanzo Show” senza teatro e senza spettatori. Gli ospiti si fidavano e si aprivano senza alcuno sforzo. Giovanni Falcone era il più chiuso, mangiava poco e non beveva. Era lui che faceva le domande a Costanzo. Carlo Azeglio Ciampi, mentre era Presidente della Repubblica, comparve una volta per prendere di fretta il caffè. L’intera strada fu isolata dalle forze dell’ordine. Fu così che molti scoprirono il segreto della trattoria. Tutto finì quando Costanzo fu sottoposto a una severissima dieta alimentare».
In una intervista Renato Zero dichiarò che avrebbe voluto lei come padre, se la natura non gli avesse dato il padre che ha avuto.
«Renato Zero l’ho conosciuto da giovanissimo, ci volle poco per capire che era geniale. Una volta, quando già era divenuto celebre, il lettore di un settimanale chiese al direttore responsabile di sapere come poterlo contattare. Il direttore rispose pubblicando, senza alcun ritegno, il numero telefonico privato di Renato. L’Italia intera, venuta a conoscenza di tale numero, si attaccò ai telefoni intasando la sua linea. Questi arrabbiatissimo e preoccupato mi contattò subito, per sapere quanto tempo fosse necessario per ottenere da un giudice un provvedimento che potesse mettere fine a tutto quel caos. Risposi che ci volevano, per espletare la procedura, almeno tre giorni. Mi diede il mandato di agire subito. Senonché dopo meno di mezz’ora mi ricontattò, dicendomi che forse aveva risolto il problema. Aveva inserito nella segreteria della sua linea privata un messaggio che così suonava: “Questo non è più il numero di Renato Zero. Il nuovo numero è il seguente...” e mise quello della casa del suddetto direttore responsabile, che aveva trovato nel frattempo. È facile intuire quale fu il risultato. L’Italia intera intasò l’utenza di quel direttore che si precipitò subito a fare un comunicato stampa chiedendo scusa all’artista. Renato lasciò la segreteria accesa con il messaggio che vi aveva inserito, finché non riuscì ad ottenere dall’azienda dei telefoni una nuova utenza in sostituzione della vecchia».
Anche Baudo oltre ad essere stato suo cliente ha con lei un rapporto di grande amicizia.
«Ho sempre considerato Pippo più che un amico un vero fratello. Crediamo negli stessi valori. È un uomo coltissimo. Spesso lo chiamo per consultarlo, come fosse una enciclopedia parlante».
Cosa pensa delle nuove tecnologie?
«È un discorso complesso. Prima tutto arrivava dalle nostre forze con molta improvvisazione. Adesso prevalgono logiche di natura industriale. Quello che era giovialità e leggerezza è diventato qualcosa di meno divertente».
Morricone e Baudo
Morricone alla guida
era da evitare: una volta
prese tre multe in 3 chilometri. Pippo Baudo? È coltissimo: spesso lo consulto come se fosse un’enciclopedia parlante
Un ultimo aneddoto.
«Una volta Lucio Dalla mi telefonò e mi disse: “Hanno tappezzato Bologna con una locandina pubblicitaria che reclamizza strumenti musicali. Sotto c’è scritto: li usa anche Dalla”. Poi mi chiese: “Cosa dobbiamo fare?”. E io: “Dobbiamo fare un ricorso al tribunale, notifiche e tutto il resto. Insomma ci serve una settimana per preparare l’atto, presentarlo al giudice che deve fissare l’udienza, notificare l’atto alla controparte”. Dalla ribattè: “Sbrighiamoci allora. Ma ho un’idea migliore: faccio fare dei manifesti che dicono: sono Lucio Dalla, questi strumenti li ho provati e non sono assolutamente soddisfacenti”. Attaccò qualche locandina accanto a quelle della ditta. Dopo poche ore l’azienda ritirò tutte le locandine già affisse».