Corriere della Sera, 21 febbraio 2024
I dittatori e l’ossessione per i nemici
Uno degli argomenti preferiti degli «apoti», quelli che non se la bevono, quelli che ne sanno una più del diavolo, hanno fatto il militare a Cuneo e finiscono sempre per assolvere Putin, è il seguente: perché mai avrebbe dovuto uccidere Navalny? Lo fate così stupido?
Ormai l’aveva neutralizzato in un gulag siberiano, che fastidio gli dava più? Valeva la pena di esporsi alla condanna del mondo libero, proprio mentre sta vincendo la guerra contro Kiev? Ergo: è stato Biden, la Cia, i nazisti ucraini, il Mossad, uno qualsiasi a scelta tra coloro che tramano contro la Russia, armano Zelensky e uccidono i bimbi palestinesi.
La versione finto-garantista di questa polemica è quella che ne ha data con la consueta eleganza Matteo Salvini, l’uomo che avrebbe scambiato mezzo Putin con due Mattarella (testuale); il quale ha detto che prima di giudicare bisogna sentire i giudici russi, per sapere se magari è stato il maggiordomo. Scambiando così clamorosamente la causa con l’effetto: è proprio l’assenza dello Stato di diritto in Russia che fa morire in carcere un dissidente.
Ora, a parte il fatto che se a Putin interessasse qualcosa della condanna del mondo libero non avrebbe invaso l’Ucraina, provocando non una, ma centinaia di migliaia di vittime, tutti questi avvocati della difesa hanno così poco a cuore la libertà che davvero non vedono, o non conoscono, le ragioni per cui tutte le tirannie regolarmente eliminano fisicamente gli avversari, i nemici e gli ex amici anche, e forse soprattutto, dopo averli politicamente sopraffatti.
La prima ragione è che ne uccidono uno per educarne cento, o mille. A chiunque volesse mettersi sulle orme di Navalny, è stato recapitato un messaggio: «Attento che si finisce nel gulag, attento che nei gulag si muore». Si muore senza nemmeno bisogno delle camere a gas, ha spiegato Margarete Buber-Neumann, che ebbe la triste sorte di conoscere personalmente sia i lager nazisti sia i campi di rieducazione sovietica: in questi ultimi bastava il freddo.
Si chiama «Terrore». È un metodo di governo inventato dai giacobini a Parigi nel XVIII secolo, che da allora ha avuto molti imitatori in Europa.
D’altra parte, perché mai altrimenti, al colmo del suo potere assoluto, Stalin avrebbe fatto morire migliaia e migliaia non di avversari, ma di comunisti, medici, generali, ebrei? Perché avrebbe mandato un sicario a uccidere Trotsky nel lontano Messico, dove si era rifugiato dopo essere stato cacciato dal Politburo, espulso dal Pcus, deportato e poi esiliato, privato ormai di qualsiasi influenza sulla vita politica in patria?
Sospettiamo che gli avvocati nostrani di Putin avrebbero difeso anche Mussolini dall’accusa di aver fatto assassinare o, come si espresse con penna sopraffina Indro Montanelli, di aver «lasciato assassinare» Giacomo Matteotti. In effetti non c’erano prove che il Duce avesse personalmente ordinato il delitto. E anche in quel caso la vittima era un oppositore già sconfitto. Il premio di maggioranza alle elezioni del 1924 aveva già dato tutto il potere al fascismo. E la richiesta di Matteotti di invalidare quel voto era già stata nettamente respinta dalla Camera. Lui stesso sapeva di essere perduto: «Io, il discorso l’ho fatto», disse a un compagno seduto accanto a lui, «ora voi preparate il discorso funebre per me».
Era semplicemente un eroe, una qualità che gli «apoti» non comprendono. Eppure i fascisti lo uccisero. Solo che, a differenza di Putin, Mussolini accettò esplicitamente la paternità del delitto: «Io dichiaro al cospetto di tutto il popolo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto… Se il fascismo è stata un’associazione a delinquere, a me la responsabilità perché questo clima storico, politico e morale, io l’ho creato».
Le analogie della morte di Matteotti con la tragedia di Navalny sono impressionanti. Basta leggere l’epistolario con la moglie, la poetessa Velia Titta, una donna che anticipava un secolo fa lo stesso coraggio che mostra oggi Yulia, la consorte di Aleksei: «Mi è difficile persuadermi – gli scriveva – che arrivato a questo punto non ti è ammessa alcuna viltà, anche se questo dovesse costarti la vita». (Sarà interessante vedere come la destra al governo in Italia saprà commemorare quel delitto nel centenario, che cade a giugno).
C’è poi una seconda ragione per cui i regimi uccidono i dissidenti seppur già neutralizzati: ed è che le macchine repressive hanno una loro feroce autonomia, funzionano come ingranaggi che una volta messi in moto stritolano, portano a compimento il loro sporco lavoro, anche senza che qualcuno dia l’ordine finale e definitivo. Non è dunque per nulla rilevante stabilire se Putin ha mostrato oppure no il pollice verso, come un imperatore romano al Colosseo, decretando la fine di Navalny. Per ucciderlo è bastato mandarlo in Siberia con una condanna per «frode» e «insulti a un giudice» (doveva essere uno dei giudici che invoca Salvini). Un assassino uccide con le proprie mani. Un tiranno uccide da remoto.