il Giornale, 21 febbraio 2024
UN’indagine sui morti sul lavoro
I dati peggiori in Francia, noi ventunesimi. E nel computo ci sono anche gli irregolari. Si deve fare di più, ma non si può gridare allo scandalo politico
ull’onda della tragedia di Firenze con i suoi cinque muratori morti l’ultimo corpo è stato recuperato dai calcinacci martedì sera -, forse per lo sgomento, che però passa quasi subito, forse per i luoghi comuni masochistici, che non passano mai, ci siamo ritrovati (quasi) tutti con la convinzione che in Italia abbiamo il record continentale di infortuni mortali sul lavoro, e che essi crescano di anno in anno. Scopriremo che si tratta di una balla propagandistica, gonfiata o per ignoranza o per calcolo ideologico. Ci collochiamo armonizzati i criteri di conteggio tra i vari Paesi a metà classifica. E di sicuro, tra i grandi Paesi, chi sta alquanto peggio è la Francia, dove chi lavora rischia di lasciarci la pelle assai più che da noi.
Gli ultimi dati europei fornito da Eurostat sono del 2021 e del 2020. Sono ufficiali ma completamente fasulli. In quanto viziati da uno zelo di pochi Stati: per la precisione 3 su 27. L’Italia, la Spagna e la Slovenia hanno infatti stabilito il principio di equivalenza della «causa virulenta» dell’infezione con la «causa violenta» dell’infortunio. Insomma, un lavoratore che è morto di Covid, che si supponga contratto in officina, in negozio o in ufficio, da noi è stato conteggiato come per usare una formula in voga – «omicidio bianco». Logico che abbiamo fatto un balzo in su nelle classifiche mortuarie.
L’anno fatale è stato il 2020. Il Coronavirus ha falciato specie gli anziani, ma ha imperversato nelle zone più produttive, cioè al Nord, incidendo enormemente sui numeri. È così che, secondo Eurostat, abbiamo tristemente battuto tutti con 776 defunti nella classifica delle «morti bianche», seguiti dalla Francia a 541. Ma neppure con questo handicap possiamo dirci il Paese più vulnerabile quanto a casi mortali. In termini statistici siamo quinti. La scienza, infatti, calcola quante siano state le vittime su 100mila lavoratori.
Ecco la luttuosa classifica del 2020.
1) Lettonia 3,21
2) Francia 3,16
3) Croazia 3,13
4) Norvegia (che non è della Ue, ma è monitorata come la Svizzera) 3,08.
5) Italia 3,03.
I tre Paesi meno colpiti da infortuni mortali risultano Olanda (0,42), Svezia (0,77) e Germania (0,96).
Nel 2021 sul podio nefasto degli incidenti fatali resta in testa la Lettonia (4,29 ogni 100mila lavoratori), avendo al fianco Lituania (3,75) e Malta (3,34). La Francia (3,3) è quarta, l’Italia è ottava (2,66). Gli Stati dove ci si può recare al lavoro più sereni sono ancora Olanda (0,33), medaglia d’oro della sicurezza, seguono la sorprendente Grecia (0,58) e la Finlandia (0,75).
L’ultimo censimento attendibile, stante il fuorviante periodo del Covid, è quello del 2019. A scriverlo nei suoi saggi è il professor Franco D’Amico, tra i più autorevoli statistici in siffatto mesto campo, esperto della benemerita e antica (è nata nel 1943) Anmil (Associazione nazionale tra mutilati e invalidi del lavoro). Spiega che le statistiche europee di Eurostat sono minimizzatrici. Questo vale soprattutto per i Paesi del Nord Europa, dove sfuggono alla conta circa il 30 per cento dei casi mortali. Non si considerano i morti «in itinere», quelle vittime di incidenti stradali o ferroviari. E si tiene conto soltanto dei lavoratori il cui decesso ha procurato un risarcimento alle famiglie, mentre ad esempio la nostra Inail (Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro) conteggia le denunce, perciò anche gli irregolari, il «nero».
Secondo le ultime tabelle Eurostat credibili e meno compromesse dal Covid Eurostat la graduatoria è alquanto sorprendente.
Il corteo macabro è guidato dalla Francia. Nell’Esagono (come chiamano a Parigi il loro Paese) sono deceduti sul lavoro 809 persone. In Italia negli stessi dodici mesi a soccombere sono stati 491. Dopo di noi ci sono la Germania (416) e la Spagna (347).
Ecco, comunque, la classifica stilata partendo dai peggiori, utilizzando quelli che in gergo iniziatico si chiamano «tassi d’incidenza standardizzati».
1) Francia 4,11
2) Cipro 3,09
3) Lituania 2,49
4) Croazia 2,40.
E, saltando qualche Stato:
8) Lussemburgo 1,96
10) Spagna 1,73
12) Svizzera 1,59
13) Ungheria 1,56
14) Austria 1,46
21) Italia 0,98
Insomma, la maglia nera, un Paese solo al macabro comando, e pure con distacco, è la Francia con un tasso di mortalità altissimo. A questo proposito Le Monde ha parlato ancora recentemente di «ecatombe silenziosa». Nel Paese della grandeur si tende a giganteggiare anche in questo funereo capo: si hanno quattro volte e passa più probabilità di finire al cimitero per chi lavori lì rispetto a quanto può capitare nella sventurata Italia. Altro dato: tra i cattivi sorpresa! si destreggia malamente, fuori concorso non essendo della Ue, la Svizzera, che ha un tasso di letalità di 1,59, peggio della spregiata Grecia che ha l’1,22, mentre la Germania con 0,55 risulta il più salvavita della Ue, mentre quello dove si può lavorare meglio al riparo da incidenti è la Norvegia (extra Ue) con lo 0,45.
Certo se ti metti a spiegare che in fondo non sono poi così tanti i decessi lavorativi nel Belpaese, rispetto alle vite perdute in Francia; e se poi, numeri alla mano, si sostiene che in Italia va assai meglio di questi tempi rispetto alle vittime nelle fabbriche e nei cantieri negli anni ’60 (nel 1963 morirono lavorando 4.644 connazionali, stranieri non ce n’erano), rischi di essere impiccato verbalmente in un talk show o in una manifestazione sindacale, che sono ormai la stessa baraonda, come un sanguinario minimizzatore a tassametro, assoldato dai padroni delle ferriere.
Il mio commento, dopo queste scoperte, è modesto, si limita al titolo di una vecchia canzone di Gianni Morandi con Tozzi e Ruggeri: «Si può dare di più», molto di più, direi, per curare queste «ferite dell’anima» (Mattarella dixit). Conviene in tutti i sensi. Pesco dalla Treccani questa sentenza di Henry Ford, che si intendeva di produzione e di profitti: «Il lavoro senza sicurezza è inefficiente». Sanzioni severe, dunque, per negligenti e frodatori. Più controlli, certo. Ma senza una caccia terroristica alle presunte streghe che, come usa tra i progressisti, sono individuate nella classe imprenditoriale e nel governo, ma solo se è di destra.
I modi di sommare incidenti e salme differiscono non solo tra i Paesi d’Europa, anche in Italia. Ad esempio, basta accostare due fonti autorevoli per cogliere varianti cospicue.
La Stampa il 16 febbraio ha riferito, citando l’«Osservatorio indipendente di Bologna» del metalmeccanico pensionato Carlo Soricelli, che quanto a caduti sul lavoro al 15 febbraio «siamo già a quota 145», senza «contare quelli in itinere», altrimenti si arriva a 181. 181 diviso 46 fanno 3,93 morti al giorno.
Stesso riferimento temporale, ma l’Adnkronos fornisce altri numeri: si fida di un altro esperto, il cronista Piero Santonastaso, fondatore del sito «Morti di lavoro», indica quota 128, pur sempre una cifra grave, più bassa. Sarebbero in questo caso 2,78 vittime al dì. Da qui le varianti arrotondate: quattro morti al giorno, tre morti al giorno.
Per il 2023 esiste quella dell’Inail, l’Istituto nazionale infortuni sul lavoro, il quale fornisce la cifra di 1.047, equivalenti a 2,86 decessi per infortunio ogni 24 ore. Ma Amadeus alla immensa platea di spettatori del Festival ha fornito la cifra comunicata dall’Osservatorio di Bologna del pensionato Soricelli: 1485= 4,06 morti al giorno.
In conclusione. Le statistiche, in questo settore dove i valori non sono in primis economici ma affettivi, non riescono a mettere perfettamente d’accordo né chi le stila né chi le interpreta, fatte le varie tare, ci collochiamo a metà classifica anche oggi. Per fortuna, nessun record stavolta.
Certo il fatto che Francia e Svizzera stiano peggio di noi non consola certo chi ha dovuto allestire la camera ardente per il papà muratore schiacciato da un muro o per la sorella che era alle macchine tritacarne e ne è stata afferrata per una manica, ma questo è il problema dei numeri: non versano lacrime.