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 2024  febbraio 21 Mercoledì calendario

La notte romana in cui iniziò la fine del mito Nirvana

L’inizio della fine della folgorante e tragica parabola di Kurt Cobain, leader dei Nirvana, la band americana che più di qualunque altra segnò la scena rock planetaria degli Anni Novanta, va ricercato in quello che oggi è un edificio fatiscente alle porte di Roma, il Palaghiaccio di Marino. Dopo anni di abbandono, in tempi più o meno rapidi dovrebbe diventare un gigantesco supermercato, ma all’epoca era una struttura sportiva molto usata per i grandi concerti, internazionali e no. Uno spazio, giusto per rendere l’idea, che all’epoca ospitò gli spettacoli dal vivo di Peter Gabriel, Metallica e Van Halen, ma anche di Frank Sinatra, Barry White, Deep Purple, Iron Maiden e via cantando, compresi Nek, Piero Pelù e Lùnapop.
TRENT’ANNI FA
Qui esattamente trent’anni fa, il 22 febbraio 1994 (il giorno prima si esibirono a Modena), andò in scena la data romana del tour mondiale della band legato alla pubblicazione del suo terzo e ultimo album in studio, In Utero, uscito nel 1993. Una serata indimenticabile. Pieno ma non pienissimo, nel Palaghiaccio si respirava l’aria del grande evento: Cobain e soci, il bassista Krist Novoselic e il batterista Dave Grohl (poi straordinario leader dei Foo Fighters), erano esplosi come fenomeno globale con Bleach e Nevermind, successivamente fra i dischi più imitati, o citati – mettiamola così – di sempre. La miscela esplosiva di chitarre ruvide e lancinanti, drumming incalzante, basso ossessivo, si incastrava alla perfezione con la voce stridula e graffiante di Cobain, portavoce involontario di quella Generazione X (i nati tra il 1965 e il 1980) segnata dalla mancanza di ottimismo nel futuro, scetticismo e totale sfiducia nei valori tradizionali e istituzionali. Una miscela di punk, rock, hardcore e ballad, paranoie personali e ansie collettive che Cobain interpretò alla perfezione grazie al suo talento e – inevitabilmente – anche ai suoi incubi, iniziati da bambino dopo il divorzio dei genitori, e deflagrati con l’autoisolamento, la crisi coniugale, la malattia allo stomaco, la dipendenza da farmaci, antidepressivi ed eroina.
VERITÀ
Quello che andò in scena a Marino su un palco semplicissimo (roba che adesso neanche in una festa scolastica), con poche luci e un fondale monocolore su cui vennero proiettati cerchi, croci, spirali e stelle in puro stile psichedelico, fu un angosciante concerto-verità, emozionante e disperato al tempo stesso, rappresentazione esemplare di un dramma profondo e reale ormai prossimo al capolinea. Per l’ora e un quarto di set – sfilacciato, cupo e nervoso – un pallidissimo e immobile Cobain esibì in maniera crudissima tutta la sua fragilità e la sua incapacità di gestire i demoni personali e l’enorme pressione mediatica figlia del suo status di rockstar planetaria. Non disse una parola. Per un po’ diede le spalle al pubblico. E sulle note finali dell’ultimo pezzo in scaletta, Heart-Shaped Box, abbandonò il palco all’improvviso lanciando da dietro le quinte la chitarra sugli amplificatori, lasciando i tre compagni (in quel tour c’era come chitarrista ritmico anche Pat Smear, già con i Germs e poi con i Foo Fighters, con la band dal settembre 1993) a suonare fra una tempesta di amplificatori distorti. Fine.
SU RAI3
Il giorno dopo la band andò a registrare negli studi Nomentano della Rai un’apparizione a Tunnel, il programma satirico di Rai3 condotto da Serena Dandini. Al termine dell’esecuzione di Serve the servants e Dumb, Corrado Guzzanti nei panni del metallaro Lorenzo cercò di scherzare con loro, inutilmente. Se ne andarono di corsa. Muti. La presentatrice in seguito disse che Cobain «aveva lo sguardo spaventato di un cucciolo braccato dal mondo». Il 24 e 25 febbraio suonarono al Palasharp di Milano, più o meno normalmente, e il primo marzo al Terminal Einz di Monaco di Baviera chiusero il tour, annullando lo show del giorno dopo ufficialmente per una faringite di Cobain. Quello fu l’ultimo concerto dei Nirvana. Kurt prese un aereo per passare qualche giorno di vacanza a Roma con la moglie Courtney Love (leader della rock band Hole) e la loro unica figlia Frances Bean, di due anni. La mattina del 4 marzo nella sua suite all’Hotel Excelsior proprio la sua compagna chiamò i soccorsi: trovò Cobain in overdose dopo che aveva mandato giù champagne e pillole di psicofarmaci di ogni tipo. Fu ricoverato al Policlinico Umberto I, dove rimase in coma per due giorni, per poi essere trasferito all’American Hospital capitolino. Si salvò, e dopo cinque giorni da Roma prese un aereo per rientrare in America. Qui accettò di disintossicarsi in un rehab di Los Angeles, ma dopo poco scappò per ritirarsi da solo nella sua villa sul lago Washington, vicino a Seattle.
L’ULTIMO ATTO
L’8 aprile un tecnico della Veca Electronics, bussò invano alla sua porta. Lo vide disteso nella sala vicino al garage e chiamò la polizia, che lo trovò cadavere. Il decesso, così fu scritto nel referto del medico autoptico, era avvenuto tre giorni prima, il 5 aprile. Stando ai rapporti della polizia, il leader dei Nirvana si era suicidato sparandosi in bocca con un fucile Remington calibro 20, aveva ingerito Valium in dosi non terapeutiche, e si era iniettato eroina sufficiente per una tripla overdose. In una lettera lasciata dentro un vaso, rivolgendosi all’amico immaginario Booddah, confessa la sua incapacità di adeguarsi alla vita e alle pressioni del successo, ringrazia un po’ tutti, e chiude così, citando Neil Young e la sua canzone Hey Hey, My My (Into the Black): «Non ho più nessuna emozione. Ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente. Vi amo».