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 2024  febbraio 18 Domenica calendario

Storia della canzone napoletana

È come un sismografo. Un sonar. Un radar. Uno scandaglio utile a cogliere, registrare e documentare innovazioni e trasformazioni, materiali e culturali. E anche tecniche: la prima funivia? Funiculì funiculà. Il telefono? «Pronto? Tu si pronto ed allora simmo pronti tutti e due…». Ma anche cambiamenti epocali, dalle guerre fino alla recente pandemia.
Sto parlando della canzone napoletana: annota le mutazioni che si addensano in una civiltà come quella napoletana, ricostruendone anche minuziosamente le stratificazioni, e si ostina a rappresentare ciò che resta e sopravvive, e a catalogare ciò che cambia e si rinnova.
Fornendo così un materiale straordinario, “buono da pensare”, per ricorrere alla nota espressione di Claude Lévi-Strauss, utile a letture trasversali e significative. Purché la si affronti con uno sguardo scevro dalla logica crociana che divide la poesia dalla non poesia ma che diventa ancor più feconda se agevolata da uno strabismo, dove un occhio punta alla musica, e l’altro alla socioantropologia (Adorno dixit). È quanto ha fatto Pasquale Scialò, storico della musica, e di suo musicista e compositore per il teatro e il cinema (per Aria ferma è stato candidato ai David di Donatello), in un’opera unica: La storia della canzone napoletana. Un libro imprescindibile per conoscere e capire le vicissitudini di un genere che nasce e vive sotto il segno del meticciato culturale: incorpora fatti di cronaca (Tamurriata nera) o i nuovi ritmi della musica d’oltralpe (Carosone, il più noto dei “remixatori” ante litteram), creando e inventando cocktail unici. La sua riconoscibilità deriva anche dal fatto di sottostare a un unico grande marchio, quello della griffe “Napoli”, che assorbe tutto ciò che nasce non solo in città, al punto che Sergio Bruni da Villaricca diventa la sua unica e irripetibile voce.
Ha rappresentato inoltre il modello in cui si è identificato l’intero Mezzogiorno ed è stata anche canzone nazionale, almeno fino al secondo dopoguerra, anche per il vuoto lasciato dagli altri dialetti.
La sua riconoscibilità regge su alcuni elementi costitutivi, a cominciare dalla lingua: un napoletano che si alimenta della poesia dolce e sentimentale di un Salvatore Di Giacomo, o di quella dura ed essenziale di un Salvatore Palomba (Carmela, la più nota), ma che è pronta alle variazioni proposte dal blues di Pino Daniele, senza rinunciare al gioco “tamarro” di Tony Tammaro, o a rigenerarsi nel rap e nella trap. Le passioni eterne non mancano, come le separazioni e gli abbandoni, ma vengono riproposte in nuovi contesti e dentro nuovi condizionamenti.
Un’arte che vive di una produzione fatta di sequel, retta da un inseguimento continuo di sonorità, temi e personaggi che vengono richiamati o citati: Dove sta Zazà? Qualche anno dopo una nuova canzone ci informa che era finita in un paesino a far la vita. Basta rimescolare con il dub degli Almamegretta le parole dei canti delle feste popolari (Sanacore), perché vecchie canzoni vengano riscoperte o rilanciate. Ricondizionamento di termini, riproposizione di emozioni, rifacimento di ritmi che costruiscono un mondo culturale e sonoro di cui Pasquale Scialò tira le fila.
La canzone e il teatro sono da sempre le maggiori e le migliori espressioni di una città che, nata analfabeta, ha trovato nell’oralità le forme più immediate per costruire la sua cultura: dal teatro di Antonio Petito, nato in scena e trascritto da altri, a Raffaele Viviani che portava i suoi ritmi a un musicista per farli mettere sul pentagramma, fino a Eduardo De Filippo che ha operato adeguamenti italianizzanti per accogliere i cambiamenti sociali della lingua. Ieri come oggi: ai tempi del varietà per sbarcare il lunario i genitori lanciavano le figlie come canzonettiste, e ai giorni nostri tutte e tutti cercano uno spazio e un ruolo in questo universo oramai mediatico e tiktoker.
La canzone può essere letta come una macchina che sistematizza la società, la cultura e la politica. Per quest’ultima basti pensare alle voci antagoniste dei 99 Posse. Che sono andate man mano addolcendosi fino a riprodurre un mondo di ricordi “amorevoli”, come in Speaker Cenzou. Ma anche la marginalità sociale trova uno spazio e una rappresentazione: alle amate di un tempo, narrava Nino D’Angelo, si regalavano braccialetti «placcati in oro», quelle di oggi hanno al polso Rolex di rappresentanza che non funzionano, secondo Geolier prima maniera, pre Sanremo. Qui il suo incondizionato successo ha creato forti polemiche: dal napoletano, oramai sempre più scritto come si parla e senza le vocali di chiusura francesizzanti; alla sua richiesta di voto letta come una chiamata a raccolta identitaria. Certo, una voce della periferia che arriva sul palco della nazione può far storcere il naso, ma le sue canzoni in quel napoletano asciutto, poetico e ritmato hanno un riconoscimento nazionale e un successo diffuso già da qualche anno. Infatti, più che di familismo meridionale, si tratta di essere capaci di leggere il nesso con un intero mondo non solo musicale.
Il tutto realizzato con testi unici e significativi come Il coraggio dei bambini che da tempo, fin da quando Geolier era ancor più giovane, gli ha permesso di conquistare premi decretati dalla esclusiva e indiscussa giuria popolare dei fans nazionali e che oggi lo fa uscire vittorioso alla festa della musica nazionale nonostante gli insulti (anche) razzisti e le polemiche (non solo) campaniliste. E che rappresenta, ancora una volta, la conferma della forza millenaria di una civiltà e di una cultura, delle sue canzoni e di una in particolare (Io p’ me, tu p’ te) che riesce a far cambiare lo statuto di una manifestazione pur di ammetterla.
In questa tessitura stratificata e molteplice, in questo puzzle dalle mille tessere, la canzone napoletana offre spazio anche a un mondo sotterraneo, oscuro, “provinciale” ma tecnicamente attrezzato, che trova affermazione e permette di curiosarci dentro utilizzandola come cartina di comportamenti che sempre più si radicalizzano e si oppongono a una normalità imposta dalla globalizzazione del politically correct. È il caso della diva all’ultimo grido, Fabiana, che ha fatto tanto rumore andando contro tutte le regole della parità, contrapponendo maschi “esigenti” al rispetto e alla fluidità dei generi. Questa sorta di Lady Gaga in versione trash, in Malessere, afferma che non le interessano i laureati, chi le porta i fiori, le piace chi fa le tarantelle quando esce con le amiche, che fa il geloso anche in pubblico e che la notte se ne va a ballare…
Ma non finisce qui, perché il successo e il danaro, la ricchezza e il benessere sfacciato ed esibito come delle Balenciaga, vengono esaltati nel video in cui Bema afferma di aver preso oro e diamanti, che è pieno di contanti e così «m’accatto ’o munno e te porto cu me». Messaggi che vengono accolti e utilizzati, e che portano all’estremo squilibri e divari sociali tra cui si cercando strade per emergere, condividendo modelli imperanti purché, non importa come, ci si possa esibire e mostrare. Anche se in contrappunto si sente dire, napoletanamente, che tutto questo avviene perché nessuno «ci ha imparato» altro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Pasquale Scialò
Storia della canzone
napoletana, volume I 1824-1931, volume II, 1932-2003
Neri Pozza,
pagg. 332 e 380, € 49