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 2024  febbraio 18 Domenica calendario

Il francese, lingua dell’Africa

Nel 2060 l’85% dei francofoni del mondo vivrà in Africa e già oggi Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, è la più grande città francofona del mondo, prima di Parigi mentre terza viene Abidjan, capitale della Costa d’Avorio. Il francese è dunque diventato la lingua dell’Africa, più dell’inglese, dello swahili e dell’arabo?
Con una sfumatura importante: non è tutto francese il francese parlato in Africa ma spesso un creolo, una lingua ibrida che mescola lingue africane, francese e anche inglese e che prende diversi nomi come il camfranglais parlato in Camerun: «All les motos originaires du Kamer, s’ils sont des pôpô kamer doivent ya le camfran, la langue du mboa» (Tutte le persone originarie del Camerun, se sono dei veri camerunesi devono capire il camfranglais, la lingua del Paese). In Costa d’Avorio prospera invece il nouchi, che letteralmente in malinké significa “pelo nel naso”, cioè “baffo” segno distintivo del malvivente che batte strade e mercati rubando o spacciando. Il nouchi nasce nel Black Market, famoso mercato di Abidjan ed è diventato la lingua delle giovani generazioni che hanno imparato male il francese, ma lo parla anche il presidente della Repubblica. Alcune espressioni: “ya foye” dove foye significa “niente”, vuol dire che va tutto bene. «J’ai un gba avec un mogo» vuol dire «Ho un appuntamento con una ragazza». Un “kpakpato” è una persona a cui piace spettegolare, un “plomb” o un “togo” sono una banconota da 100 franchi Cfa, la valuta francese d’Africa sopravvissuta al franco francese di Francia.
Non è tanto idilliaco il rapporto del francese con le ex colonie d’Africa. Soprattutto negli ultimi anni, alcuni Paesi caduti nella sfera d’influenza russa, hanno espulso le forze militari francesi e ridotto al minimo se non troncato i rapporti con la Francia, come ad esempio il Mali che ha tolto al francese il suo status di lingua ufficiale. Ma il francese d’Africa, ibrido e contaminato dalle lingue africane, ormai è una lingua a sé, percepita dai suoi locutori come lingua locale e non più associata alla vecchia potenza coloniale. È diventata la lingua urbana dei rapper e degli “slameurs”, i cantastorie delle nuove generazioni. Anche su questo fa leva l’organizzazione della Francofonia, un’invenzione tutta francese che contrasta il predominio dell’inglese sposando la causa del multilinguismo. La strategia è semplice ed efficace: il francese autentico è ormai una lingua minoritaria in Africa, alla stregua delle tante lingue regionali africane. Promuovendo dunque il multilinguismo, i francesi dicono di promuovere assieme al francese anche il bakoko, il bamoun, l’ewondo, il tikar, il douala, il bassa, lo yabassi, il dimbambang, il bakweri, il bulu, il foufouldé, lo haoussa e le tante altre lingue delle loro antiche colonie, nel nome della sacrosanta diversità culturale.
La Francofonia abilmente riconosce e promuove questa diversità come una ricchezza sviluppando numerosi programmi di sostegno delle lingue nazionali africane che definisce «lingue partner» del francese. Così vengono istituiti premi alla traduzione e sviluppate le cosiddette “bi-grammatiche”, manuali che introducono all’apprendimento di entrambe le lingue. Un altro cavallo di battaglia della Francofonia è il metodo dell’intercomprensione, che utilizza soprattutto in contesti di lingue neolatine, come in Sudamerica. Il principio è semplice: un locutore di una madrelingua neolatina può imparare passivamente più lingue della stessa famiglia con poco sforzo grazie a questo metodo. E così anche qui il francese si intrufola fra lusofoni e ispanofoni. La Francofonia è un po’ la risposta francese al Commonwealth inglese e si pone come obiettivo di promuovere assieme al francese la pace, la democrazia e i diritti umani, l’istruzione, la formazione e la ricerca. Tutto questo può suonare forse ipocrita ma funziona ed è un efficace esempio di quel “soft power” che noi italiani invece non riusciamo proprio a mettere insieme, anche se ne avremmo tutti gli strumenti.
Perché non immaginare un’organizzazione dell’Italofonia? Non per fare il verso ai francesi ma per sviluppare una politica di influenza attraverso la nostra lingua approfittando del prestigio e della forza di cui gode. Solo l’opera lirica sarebbe una miniera di risorse da mettere a frutto. Anche noi in Africa avremmo uno spazio da occupare nella formazione delle future classi dirigenti delle nostre ex colonie aprendo così la via a un’immigrazione selezionata e contribuendo alla stabilità di quei Paesi. E senza andare tanto lontano, tutta la penisola balcanica ha familiarità con la nostra lingua e sarebbe un terreno fertile per una nostra strutturata presenza che ci permetterebbe fra l’altro di sviluppare un nostro mercato culturale.
Una filiera che dalla lingua si estenda all’università e che contribuisca anche ad agganciare più solidamente questi Paesi alla costruzione europea. Anche solo nella denominazione del diploma di conoscenza dell’italiano noi siamo poco attraenti e dispersivi. Celi e Cils si chiamano i due brevetti di Siena e Perugia in concorrenza l’uno con l’altro. Perché non ideare un nome più attraente e meno arido? Un diploma unico intitolato a Dante, per esempio.