Domenicale, 18 febbraio 2024
Cent’anni fa il debutto della Rapsodia in blu
Cento anni fa, nel febbraio del 1924, una cascata di applausi inondò l’Aeolian Hall di New York, la sala da millecento posti situata nell’edificio dell’omonima azienda di pianole e strumenti musicali automatici, di fronte a Bryant Park. Era la “prima” di Rhapsody in Blue, Paul Whiteman alla guida della Palais Royal Orchestra, al pianoforte George Gershwin, tra il pubblico Rachmaninov e Stokowski. Whiteman, detto il re del jazz, era all’epoca il più famoso direttore di dance band, gestiva una trentina di ensemble e incassava l’astronomica cifra di oltre un milione di dollari all’anno. Aveva fissato una formazione standard per la musica da ballo fino a trentacinque elementi, con ottoni e sax e l’impiego di arrangiamenti formali scritti: prima di lui veniva suonata per lo più da bande da sei a dieci componenti o piccoli gruppi di archi, dopo di lui sarebbe arrivato lo swing.
Solo poche settimane prima di quel concerto, intitolato «An Experiment in Modern Music», Whiteman aveva commissionato un brano al giovane Gershwin, brillante pianista venticinquenne di Brooklyn autore di apprezzate canzoni per Broadway. Figlio di immigrati ebrei russi e autodidatta, Gershwin amava Bach, Wagner, Beethoven e Debussy. A quindici anni aveva lasciato la scuola come song plugger, eseguiva dal vivo spartiti freschi di stampa nei negozi per promuoverne la vendita, e, per la Jerome J. Remick and Co. di Tin Pan Alley, incideva le tracce dei pianoforti a rullo, i juke-box dell’epoca. L’«Experiment» della serata consisteva nel portare il jazz, inteso come musica popolare statunitense, nelle sale da concerto.
Gershwin pensò a un brano di carattere libero con temi variegati, quasi un’improvvisazione, con cui rappresentare la vibrante Manhattan dei Roaring Twenties, crogiolo di afro-americani e immigrati di diversa provenienza in cui stava esplodendo il fenomeno del jazz oltre all’euforia di chi scopriva la radio, il cinema, la spinta economica dei nuovi beni di consumo e dei mass media: la modernità. American Rhapsody, il titolo originale, scritta per due pianoforti, era per lui «una sorta di fantasia multicolore, un caleidoscopio musicale dell’America, con il nostro melting pot, la nostra incomparabile esuberanza nazionale, i nostri blues, la nostra follia metropolitana». Su suggerimento del fratello Ira, paroliere di fiducia, Gershwin modificò presto il titolo in modo da evidenziare il colore autentico della musicalità americana, che proveniva dai canti con cui nelle piantagioni di cotone si esorcizzavano malinconia e sofferenza, e quindi dall’Africa, e che con l’abolizione della schiavitù si era diffuso per le strade, con quella precipua empietà dissacratoria che lo distingueva dal gospel. Oltre al sentimento ricreato dalle blue note, intervalli diminuiti che l’armonia accademica avrebbe considerato dissonanti, del blues Gershwin riprese la struttura antifonale di call and response e i melismi a delineare grandi melodie.
Compose il brano talmente in fretta che non fece in tempo a completare la parte del pianoforte solista, ma tanto suonava lui e, almeno quella sera, rimase un minimo per l’improvvisazione. L’orchestrazione della parte per Big Band fu affidata a Fred Grofé, arrangiatore di Whiteman e garanzia di successo, che la trascrisse ancora nel 1926 per orchestra da teatro (si intende Broadway) e nel 1942 per orchestra sinfonica, ampliata da una distesa di archi, la versione oggi più diffusa: se uno dei segreti per cui il pezzo è rimasto sempre attuale è stato sapersi adeguare alle sale più autorevoli per entrare di diritto nel repertorio sinfonico, un’infinita serie di adattamenti l’hanno proiettato in contesti imprevedibili, da una Voodoo Dance del 1930 alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984.
Introdotta dall’iconico trillo che già il clarinettista di Whiteman sfumava in glissando, mentre pensata al pianoforte nasceva come scala cromatica ascendente, nella rapsodia si dipanano cinque idee tematiche, rielaborate nei ritmi e nelle armonie. La sintesi tra spunti popolari e tradizione classica, di inflessioni melodiche, sonorità e ritmi che ammiccano al Charleston, al sincopato e al Cuban Clave a fianco di temi di sapore tardo-romantico e cadenze alla Rachmaninov, è l’innovazione che sancisce l’importanza del pezzo. Tutto è scritto, il jazz sembra diventare bianco.
All’epoca si auspicava la creazione di un’identità culturale tutta americana, indipendente dall’influenza europea, e diversi altri avevano già provato a fondere classica e stilemi jazz, ad esempio Stravinskij con Rag-time, ma nessuno riuscì quanto Gershwin, che quel che accadeva per le strade dei quartieri latinoamericani come di quelli neri, italiani e irlandesi lo conosceva davvero: l’insediamento dei genitori in città era stato assai instabile. La commistione non piacque a tutti, per la classe media statunitense il jazz restava espressione degradata e chiassosa di locali malfamati e degli speakeasy, dove si vendevano illegalmente bevande alcoliche, ma il riscontro mediatico e del pubblico fu tale da consacrare l’autore a padre della musica americana moderna.
E non serve interrogarsi sull’appartenenza a un genere piuttosto che a un altro, è fantastica musica! A Gershwin dobbiamo il fatto di aver voluto rinsaldare la deleteria frattura che ai tempi dell’operetta viennese si era creata tra musica cosiddetta colta e popolare, considerando rispettivamente l’una alta e l’altra bassa, mentre nel medioevo come nel rinascimento tra un mottetto e uno strambotto non si distingueva valore stilistico: quanti dopo di lui si sono per fortuna rifatti a tradizioni popolari ed extra-occidentali.
Gershwin passò poi qualche tempo in Europa, desiderava prendere lezioni da Ravel, Schoenberg e Berg, incontrò pure Prokofiev e Stravinskij, a loro si era avvicinato con timore reverenziale ma tutti quei mostri sacri lo incitavano a proseguire per la sua rotta. A testimonianza del soggiorno parigino resta l’affresco An American in Paris, presentato nel 1928 a Carnegie Hall e ripreso l’anno successivo con Rhapsody in Blue al Lewisohn Stadium di New York, con quindicimila spettatori e il debutto di Gershwin direttore d’orchestra insieme alla New York Philharmonic, sempre lui al pianoforte. Poi gli anni di Hollywood e i primi film sonori, fino alla folk opera Porgy and Bess con Summertime, del 1935. Gershwin morì a soli 38 anni, due anni dopo. Rhapsody in Blue rimane tra i brani più eseguiti al mondo ed è appassionante confrontare le versioni più celebri di Bernstein con altre meno scontate, preziose, dalle jazz band storiche ai piano rolls incisi dallo stesso Gershwin, a Toscanini, alle sorelle Labèque.
A Piano City Milano, trionfo di pianoforti 17-19 maggio, festeggiamo il centenario con la primissima versione senza orchestra per due pianoforti.