La Lettura, 18 febbraio 2024
Federica Michisanti o l’arte del jazz
Mentre parla e sorride, Federica Michisanti (1976) rende subito trasparente il suo innamoramento fanciullesco e contagioso per la musica. Michisanti è ora la signora, la regina, del jazz italiano. Si è infatti appena aggiudicata il Top Jazz Referendum 2023 della storica rivista «Musica Jazz» in ben tre categorie (cosa più unica che rara): musicista dell’anno, disco dell’anno (Afternoons) e formazione dell’anno, che è quella del super quartetto del disco – con Louis Sclavis (clarinetti), Vincent Courtois (violoncello), Michele Rabbia, batteria ed elettronica) e lei (contrabbasso e composizione) – che verrà presentato al prossimo Festival Jazz di Bergamo, il 24 marzo. La sua musica non passa mai inosservata: smuove, turba, scava. Non assomiglia ad altre. Nulla a che fare con la corrente maestra. Le sue composizioni mostrano davvero come il jazz oggi riesca ad andare a toccare linguaggi che prima gli erano (in parte) preclusi.
Qual è il rapporto fra scrittura e improvvisazione nella sua musica?
«Le metto sullo stesso piano. Mi piace molto scrivere e l’improvvisazione è parte integrante: completa la composizione».
Provi a descrivere la sua musica.
«Mi piace la musica dove succede qualcosa. Quando compongo non vado troppo a cercare in giro: scelgo sempre qualcosa che mi (ri)suona dentro. Mi deve far stare bene. Se è così, so da subito che la direzione è e sarà quella giusta».
A volte nei suoi pezzi si colgono, se non proprio influenze, suggestioni della musica colta del Novecento.
«Qualcuno mi ha detto che si sentono echi della Seconda scuola di Vienna, qualcun altro mi ha accostato alla Third Stream (stile degli anni Cinquanta-Sessanta che mescolava la scrittura classica con l’improvvisazione jazz, ndr)».
Ma lei, invece, che cosa ci sente?
«Direi un po’ di Maurice Ravel. Certe atmosfere sospese vengono da lì».
Non dal jazz?
«Anche. Charles Mingus e Thelonious Monk...».
Un compositore jazz che ama?
«Wayne Shorter, perché nei suoi brani c’è molto spazio per la scrittura».
Il musicista che ha ascoltato di più?
«Bill Evans, anche se le mie composizioni non vanno in quella direzione».
Lei insegna. Ma il jazz si può imparare usando libri e metodi?
«Io suono sempre con gli studenti, o in duo, oppure in trio. Propongo un brano e chiedo anche a loro di farlo. Faccio poi ascoltare le versioni di quel pezzo che per me sono più importanti. Consiglio sempre di imparare dai dischi».
Lei che studentessa è stata?
«Al jazz sono arrivata non da ragazzina e ho sempre coltivato anche una passione per il disegno. Quando ho deciso che il tempo per la musica non mi bastava, mi sono licenziata da un lavoro sicuro a tempo indeterminato in un ufficio».
Immaginiamo non si sia pentita.
«Mi sarei licenziata molto prima, ma non volevo far preoccupare mio padre».
Perché ha scelto il contrabbasso?
«È un’esigenza arrivata col tempo. Suonavo il basso elettrico in formazioni rock. Ma con i miei ascolti di jazz mi resi conto che avevo bisogno di quel suono».
Che ascolti erano?
«Il trio di Bill Evans e quello di Keith Jarrett, il che voleva dire il suono del contrabbasso di Scott La Faro e Gary Peacock. Ma ascoltavo anche Palle Danielsson».
Tutti gli strumenti musicali in qualche modo – ci passi il verbo – deformano, anche se solo lievemente, il corpo. Pensiamo al callo sul collo dei violinisti e violisti, il labbro dolorante dei trombettisti... Il contrabbasso?
«Può far venire male alle spalle. Si ingrossano le dita della mano sinistra. Vede? (mostra la mano, ndr). Da donna non ho mai avuto le unghie lunghe e a essere sincera neanche mi interesserebbe».
Lo studio del jazz richiede, come quello della classica, un grande impegno, che però non viene riconosciuto.
«Quando ti chiedono cosa suoni e tu rispondi: “Il contrabbasso”, la frase che segue è sempre: “Allora sei andata al Conservatorio a Santa Cecilia”. Anche il jazz richiede uno studio infinito. In molti pensano invece che l’improvvisazione sia solo qualcosa in cui uno si arrangia».
Lei è appassionata di letteratura sufi. In che modo entra nella sua vita?
«Il sufismo mi ha insegnato a cercare l’unità con me stessa, con quello che sono, a capire davvero ciò che voglio, che non è per forza ciò che desidero ma ciò che è utile per me. Ho ricercato questo anche nella musica: cosa mi piace suonare, cosa sento e da quale parte voglio andare. È per questo che ho preso la mia strada scoprendo la composizione. Quando scrivo cerco di essere me».
La sua musica ha una finalità?
«Vorrei facesse stare bene, anche se alcune mie atmosfere non sono rassicuranti».
Una metafora per la sua musica?
«Una porta che si apre verso l’infinito».
Quando compone pensa al pubblico?
«No. Succede quello che deve succedere. Quando scrivo sento che quella cosa va bene così. Ho preso molto da Lo spirituale nell’arte di Vasilij Kandinskij. Lì scrive di una corrispondenza interiore con l’arte. Mi ci ritrovo sia quando compongo sia quando ascolto musica altrui».
Che colore darebbe alla sua musica?
«Un colore chiaro, che va verso la luce. Tra il giallo e il bianco».
Il disegno e la musica, le sue due passioni. Come le fa dialogare?
«Sono due cose diverse: il disegno è un’arte concreta, esiste nella realtà, anche se è astratta. La musica è invece astratta nel vero senso della parola».
Ci parli del suo disco «Afternoons».
«Ho composto i brani ma la musica si fa insieme. È come una conversazione. Tu dici la tua, l’altro dice la sua che non necessariamente è ciò che ti aspetteresti come risposta ma a volte, dopo, pensi che sia bello, giusto. Che non ci avevi pensato. E poi si continua a conversare».
I tre migliori assoli di contrabbasso?
«Scott La Faro in trio con Bill Evans su Nardis nel disco Explorations, Gary Peacock nel disco in duo con Paul Bley su The Blues e Dave Holland su Old Folks in Question and Answer con Pat Metheny».
Lei non suona standard ma gli standard rappresentano l’immaginario del jazz. Quali sono i suoi preferiti?
«Ne posso citare tanti: The Nearness of You, Tenderly, Come Rain or Come Shine, Soul Eyes, I Fall in Love Too Easily..., poi tutti quelli che suonava Bill Evans».
Lei cita spesso Bill Evans.
«Ho trascritto tantissimi suoi assoli, dai quali ho imparato molto. Forse ho sbagliato strumento...».
Il suo primo disco di jazz?
«The Köln Concert di Keith Jarrett».
Si può rischiare di non emergere anche se si ha talento?
«Ma sa che stavo per smettere? Non ci capivo nulla su come si diventa musicisti. Però poi ho pensato che la musica che scrivo mi piace, è onesta, sono io, non copio e vorrei che le persone la potessero conoscere. Questo desiderio ha fatto in modo che le cose succedessero. Ci vuole determinazione. Seguire sé stessi ripaga sempre. È bello rischiare di essere felici».