La Lettura, 18 febbraio 2024
Il cinema basato sui processi
Regista e sceneggiatore, Cédric Kahn (nella prima foto dall’alto), 57 anni, esordisce come assistente di Maurice Pialat per Sotto il sole di Satana nel 1987. Tra i suoi film usciti in Italia, La noia (1998), dal romanzo di Alberto Moravia, Roberto Succo (2001) sul serial killer italiano e Fête de famille (2019) con Catherine Deneuve. Oltre a Le procès Goldman, distribuito da Movies Inspired, quest’anno vedremo anche Making of, passato fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia. Arthur Harari – regista, sceneggiatore, attore di 43 anni (seconda foto dall’alto) – ha diretto i film: Diamant noir e Onoda-10.000 notti nella giungla (César per la sceneggiatura nel 2021). È compagno della regista Justine Triet e padre delle loro due figlie. È co-autore di due sceneggiature con Triet, Sibyl (2019) e Anatomia di una caduta (2023, nominata agli Oscar), e ha recitato in Sibyl e La bataille de Solférino (2013)
I fotogrammi
Nella fotografia grande in alto: Arieh Worthalter interpreta Pierre Goldman nel film Le procès Goldman. Sopra il titolo, da sinistra: Guslagie Malanda sul banco degli accusati in Saint Omer
e l’aula di giustizia di Anatomia di una caduta con Sandra Hüller (candidata a al César e all’Oscar come miglior attrice protagonista)
Nel 1957 il cinema americano produsse due indimenticabili film di processo, due capostipiti del genere: La parola ai giurati e Testimone d’accusa. Sidney Lumet e Billy Wilder. Nemmeno due anni dopo Otto Preminger consegnava alle sale Anatomia di un omicidio. Lumet, che dalle aule e dalle toghe non riusciva a stare lontano, nel 1982 avrebbe poi firmato Il verdetto con Paul Newman.
Che il cinema americano periodicamente scelga il tribunale come luogo ideale per riflettere sul mondo e sulle questioni che agitano la società è evidente (Kramer contro Kramer, Sotto accusa, JFK, Il processo ai Chicago 7... la lista è lunghissima).
Da questa parte dell’oceano sono soprattutto i francesi a farlo (bene) sin dai tempi di L’Affaire Dreyfus di Georges Méliès (1899). Due courtroom drama infatti si contenderanno il 23 febbraio il podio dei César, con 11 e 8 candidature: Anatomia di una caduta di Justine Triet – che, dopo la Palma d’Oro a Cannes, ha mietuto successi ed è candidato a cinque Oscar – e Le procès Goldman di Cédric Kahn che, sempre a Cannes, ha inaugurato la Quinzaine des cinéastes.
C’è un precedente: poco prima, alla Mostra di Venezia, Saint Omer, di Alice Diop – che ha vinto il Leone della sezione Orizzonti e, ai César 2023, si è aggiudicato il premio per la migliore opera prima – ha invitato gli spettatori ad accomodarsi sugli scranni per giudicare una madre accusata di infanticidio, più dalle parti della tragedia greca che di Hollywood, ispirato a un vero caso di cronaca del 2016 da cui la regista era stata «ossessionata». I febbrili appunti presi durante il dibattimento hanno formato l’ossatura del film.
«L’aula del tribunale è il luogo del grande disfacimento dell’intimo, della ricerca impossibile della verità», ha dichiarato Justine Triet che, con il suo film, ha contribuito a fare implodere la vocazione requisitoria del genere, di fatto la forma rispettabile del true crime, depurata dal voyeurismo. «Che il cinema francese si interessi alla parola è un dato», sostiene Kahn. Il suo film, ancora inedito in Italia, racconta il secondo processo, del 1976, all’attivista di estrema sinistra Pierre Goldman – fratellastro del più famoso chansonnier Jean-Jacques Goldman – accusato dell’omicidio di due farmaciste nel corso di una rapina, e già condannato all’ergastolo.
Non avendo a disposizione i verbali dei processi (in quegli anni non si redigevano) il regista ha ricostruito l’andamento del dibattimento grazie alle minuziose cronache del tempo: le udienze erano affollatissime, soprattutto dall’intellighenzia di sinistra, con Simone de Beauvoir e Régis Debray spesso in prima fila. «In assenza di prove tangibili rimane solo il linguaggio – spiega —. Il linguaggio nell’arena di un processo è in grado di fabbricare punti di vista, di rimodellare la realtà».
Arthur Harari – parte in causa in entrambi i film candidati: co-sceneggiatore di Anatomia di una caduta (e compagno di Triet), in Le procès Goldman interpreta l’avvocato della difesa, Georges Kiejman – pensa che «in realtà in Francia si girino più commedie e film polizieschi che film di processo, ma non c’è dubbio che questi ultimi siano arrivati di prepotenza al pubblico; la stampa e la critica se ne sono interessate; ci sono state riflessioni. Sono film che raccontano molto».
Le procès Goldman racconta senz’altro moltissimo della Francia in cui si svolse e nasce dalla scoperta, in gioventù nella libreria della famiglia Kahn, del romanzo che Goldman scrisse in carcere, Souvenirs obscurs d’un juif polonais né en France. «Sapevo che un giorno mi sarei confrontato con il tribunale», rivela l’autore a «la Lettura». In quel libro e nella storia di quell’uomo c’era molto più di quanto riassunto nei capi di imputazione: il riflesso di un’epoca con le sue utopie rivoluzionarie, un clima di confronto ideologico molto teso. Come afferma l’avvocato Kiejman nel film, «Goldman è un uomo del XX secolo, figlio della Shoah, una passione per la causa latino-americana e l’anti-colonialismo, una tendenza al banditismo», e se il suo processo rappresentò la messa in scena di molte convulsioni del secolo passato, è altrettanto vero che il film oggi in qualche modo ci dice che «la Francia non ha fatto grandi passi in avanti dal dopoguerra: c’è nel mio Paese un razzismo residuale che si acuisce in certi momenti storici: questo è uno di quelli», afferma Kahn. «Le divisioni di quella Francia giscardiana di centrodestra, bianchi/neri, borghesi/proletari, provincia/élite, francesi/stranieri, sono le stesse attorno a cui ci arrovelliamo oggi».
Quel processo polarizzò l’uditorio, come più tardi e in altre aule avrebbe fatto solo il caso O.J. Simpson: il fan club di Pierre Goldman che applaude i suoi interventi si contrappone agli hater, gli odiatori di professione, un divario che prefigura il tumulto in arrivo con i social network. Ma la lezione resta quella dei classici. La messa in scena di Kahn è all’osso, più austera di Triet e Diop: non si esce mai dall’aula, non ci sono flashback, niente musica, luce naturale. Persino il formato (4:3, quadrato, molto usato fino al secondo dopoguerra) contribuisce a produrre una sensazione immersiva, la stessa dei film di Lumet: «L’accusato, il pubblico ministero, gli avvocati non recitano per la macchina da presa, ma per il pubblico in aula, i figuranti», spiega Khan.
E l’altro pubblico, quello che guarda il film, è in aula insieme con loro. È a noi, gli spettatori, che il film chiede di giudicare se Goldman è innocente o colpevole, e ci consegna più di un dubbio sulla protagonista di Anatomia di una caduta accusata dell’omicidio del compagno.
La scelta degli attori è in sé una dichiarazione di intenti: Arieh Worthalter e Arthur Harari, «perché non volevo nessun volto noto. La parola doveva essere l’unica vera protagonista», dice Kahn. Non diversa da quella di Alice Diop: le due protagoniste – Kayije Kagame e Guslagie Malanda – sono una performer e una curatrice d’arte.
Il giudice assolverà infine il rivoluzionario che propugnava la propria innocenza come un assioma – «Sono innocente perché sono innocente» – ma la libertà durerà poco: Goldman verrà ucciso tre anni più tardi in circostanze mai chiarite. «Il tribunale è per definizione il luogo dove la nebbia si dirada per fornire un’immagine definitiva. Ma quante certezze portano a casa gli spettatori dai verdetti? Per questo una Corte d’assise è un luogo formidabile per il cinema. Si può dire la verità, oppure mentire. C’è una drammaturgia, c’è spettacolo», spiega Harari.
Poco importa allora se siamo di fronte a un vero caso, come in Goldman e in Saint Omer, o a una vicenda di fantasia come quella di Anatomia di una caduta. «Tra i due tipi di film processuali – quello in cui i pezzi del puzzle vanno a posto e quello in cui restano dei vuoti – per Anatomia abbiamo scelto il secondo», continua Harari. Non tutti i courtroom drama parlano di giustizia, allora. «E nemmeno la giustizia rende sempre giustizia», conclude Kahn. «La verità resta irraggiungibile quando un’intera società si immischia nel processo e si dibattono questioni oltre il caso giudiziario». Così è stato per un processo che ha prodotto libri (per esempio V13 di Emmanuel Carrère), ma che difficilmente diventerà un film, sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015: seduta di analisi collettiva, catarsi, funzione religiosa? «Fare giustizia vuol dire parlare del mondo, della coppia, di razza, di religione, di noi. Dipende dalla posta in gioco».