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 2024  febbraio 18 Domenica calendario

Parla la figlia di Toni Negri

Prima della cremazione una cerimonia laica nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi. Fino alla fine il «cattivo maestro», deceduto il 16 dicembre a 90 anni, è rimasto lontano dall’Italia. Filosofo, politologo, leader di Autonomia operaia, Toni Negri continua a essere una figura estremamente divisiva. A mezzo secolo dagli «anni di piombo» si oscilla ancora da un estremo all’altro: chi lo considera tout court l’ispiratore delle Brigate rosse e chi lo ritiene uno dei più raffinati intellettuali italiani.
La militanza, le accuse, il processo, il carcere, la fuga in Francia: tutte tappe vissute di riflesso anche da una ragazzina che oggi ha 59 anni e fa la regista. La stessa che scoprì che la sua non era una famiglia come le altre a 12 anni: «Una mattina la polizia fece irruzione in casa. Quando suonarono alla porta andai io ad aprire e un agente mi spinse con la canna della mitraglietta poggiata sulla pancia». Anna Negri si è già raccontata nel libro Con un piede impigliato nella storia (Feltrinelli, 2009), ma questa è la prima intervista dopo la morte del padre.
Partiamo dall’inizio: che famiglia era la sua?
«Una famiglia alternativa, pienamente inserita nel movimento di contestazione degli anni Settanta. I miei su molti aspetti erano avanti: dai vestiti a quel che dicevano. Erano un po’ il futuro, se messi a confronto con la Padova della mia infanzia, dove alle elementari ti picchiavano ancora con la bacchetta di bambù. Mi hanno insegnato il concetto di diversità, anzi della relatività».
In che senso?
«Mi hanno fatto capire che per alcune famiglie c’erano valori diversi rispetto a quelli di altre. Sono cresciuta con l’idea che non ci sono per tutti valori univoci. E questa è stata una ricchezza».
Com’era sua mamma Paola?
«Spumeggiante. Più estrema di Toni (spesso lo chiama proprio per nome, ndr). Mentre lui era un intellettuale teorico e anche un po’ goffo, lei traduceva tutto in pratiche alternative. Erano comunque molto affiatati e con un buon equilibrio intellettuale».
Nel libro racconta che i suoi c’erano più per i compagni che per la famiglia. A un certo punto lei ha cominciato a soffrire di disturbi alimentari. C’è un nesso con la percezione di vivere in una famiglia diversa?
«Non è così automatica la cosa. I disturbi si sono manifestati perché era difficile essere adolescenti nel clima di tensione di quegli anni».
È vero che pregava di nascosto e sognava una famiglia normale?
«Ma non c’entra nulla con i miei. Non avrei voluto genitori diversi. Sono orgogliosa che non fossero qualunquisti, ma con una forte tensione ideale che penso faccia bene. Non vorrei che le paure e il disagio nel rapporto padre-figlia fossero interpretati in modo ideologico: siccome lui era comunista io ho sofferto per questo».
Nessuna ricaduta sulla sua adolescenza?
«Le ricadute erano la conseguenza del fatto che ero stata educata a essere una persona molto sensibile. Se sentivo che c’era il colpo di Stato in Cile e migliaia di persone venivano torturate il mondo mi appariva un luogo terribile. Li sentivo parlare di queste cose. Non è stato l’impegno politico dei miei, ma le brutture in sé ad avere, semmai, delle ricadute sulla mia adolescenza».
È vero che sta preparando un film su suo padre?
«Un documentario. Voglio raccontare come la grande storia interseca la nostra piccola storia familiare. Con mio padre tento anche di rimettere assieme i pezzi della vicenda traumatica che ha attraversato la mia famiglia».
Con quale chiave di lettura?
«Non voglio spoilerare. Ho raccolto molto materiale intimo, ci sono poi filmati di repertorio che utilizzerò per far vedere come quello che è avvenuto ci ha travolti».
Per lei che ruolo ha avuto suo padre negli «anni di piombo»?
«Secondo me gli “anni di piombo” non sono stati ancora rielaborati. Tutto è stato lasciato alla narrazione dei sopravvissuti. Il mio documentario è anche un piccolo tentativo di rimettere ordine. Fino a quando non si parlerà degli anni Settanta in altro modo, si butterà via anche la grande ricchezza che ha attraversato la vita di tante persone. In tutto il mondo la storiografia seria analizza un conflitto ascoltando tutte le parti. In Italia invece quegli anni sono rimasti solo un tabù».
Ci sarà anche un privato inedito di Toni Negri?
«Magari verrà fuori l’umanità di una persona descritta come un mostro. Ma non ne farò certo un santino».
E allora provi a dirci in che cosa ha sbagliato.
«Non è questo il mio intento. Voglio presentarlo per quello che era: una persona complessa. Cerco di raccontarne gli aspetti positivi, negativi e le contraddizioni».
Nessuna colpa neanche per aver influenzato con le sue idee le scelte di tanti giovani?
«La colpa è un concetto cattolico e io sono atea. Le persone sono un misto tra volontà individuale e circostanze. A me interessa la complessità di mio padre, in rapporto con un mondo altrettanto complesso. Quanto ai giovani che avrebbe influenzato, erano comunque giovani adulti capaci di scegliere».
Avrà almeno maturato un giudizio politico.
«Chi sono io per giudicarlo politicamente? Debbono farlo altri. In ogni caso nel film ci saranno critiche e non certo facili semplificazioni».
Ha peccato, quantomeno, di velleitarismo?
«Il mondo è andato avanti anche grazie a persone così: meno male che ci sono i velleitari. Il fatto che poi abbiano perso non vuole dire che non abbiano fatto niente di buono. Magari se fossi cresciuta in una famiglia reazionaria sarei più arrabbiata, perché i miei non avrebbero fatto nulla per tentare di cambiare le cose».
Ma è stato comunque condannato a 12 anni...
«È stato un processo politico. L’hanno accusato di 18 omicidi e poi assolto da tutti. È stato condannato solo per concorso morale in una rapina. Per via del terrorismo ci sono state storture giudiziarie enormi».

È stato un cattivo maestro?
«Toni all’estero è considerato uno degli intellettuali più brillanti e i suoi libri sono venduti in tutto il mondo. Evidentemente c’è una discrepanza forte tra quello che si dice in Italia e all’estero. È il frutto di pregiudizi che non hanno nulla a che vedere con la sua reale caratura».
Nel libro racconta che Moro lo aiutò ad ottenere la cattedra a Padova e che lui gli era molto grato, e anche del disappunto dopo la strage di via Fani.
«Per la cattedra racconto una cosa che ho appreso da mio padre. Quanto al fatto che fosse affranto dopo il rapimento è vero. Sono stata testimone di una telefonata con mia madre in cui si capiva che era fortemente incredulo e contrariato. Eppure lo accusarono persino di essere stato l’autore della telefonata alla vedova Moro».
Lei è stata molti anni all’estero...
«Sono tornata nel 1996, dopo 15 anni, perché mi era stato offerto di fare un film. Avevo lasciato l’Italia a 18 anni ed ero curiosa. Ma è stato un errore e ne sono pentita».
Pentita?
«È un Paese in cui si fa molta fatica a esprimersi, rispetto a Francia o Olanda».
Difficile essere stata la figlia di Toni Negri?
«Ho dovuto lottare tutta la vita per costruirmi un’esistenza autonoma e non essere sempre giudicata. Ho pagato prezzi non indifferenti».
Ci racconta suo padre negli ultimi suoi giorni?
«Sereno e pacificato. Ci siamo salutati con piacere».
Secondo lei, come dovrebbe essere ricordato?
«Come rappresentante di una generazione che ha tentato, seppure commettendo degli errori, di cambiare qualcosa. Vorrei che almeno questo gli venisse riconosciuto. Ma mi rendo conto che con il clima che si respira in questo momento è praticamente impossibile».