La Lettura, 18 febbraio 2024
Elogio della manutenzione
«Un cimitero di auto elettriche». Così apparivano, qualche settimana fa, le vetture Tesla malinconicamente incolonnate vicino alle stazioni di ricarica a Chicago. A causa delle temperature particolarmente rigide, infatti, i proprietari non riuscivano più a caricare né a riavviare le auto. Non è il primo inconveniente emerso con i veicoli elettrici. Qualche tempo fa un’inchiesta della Reuters aveva messo in evidenza anche la difficoltà di riparare il pacco batteria di alcuni modelli di Tesla, con un costo di sostituzione che può arrivare al 50% di quello totale della vettura.
In questo, come in altri casi, il nostro sguardo sulla tecnologia è spesso miope e superficiale. Ci focalizziamo sulla novità e trascuriamo l’importanza della cura e manutenzione. A questo tema è dedicato un libro, uscito nell’autunno del 2022, che è tornato a suscitare molto interesse nelle scorse settimane. Le soin des choses. Politiques de la maintenance («La cura delle cose. Politiche della manutenzione», La Découverte) è stato scritto da due sociologi francesi dell’innovazione al Politecnico Mines-ParisTech, Jérôme Denis e David Pontille.
La tesi è che viviamo prigionieri di due miti sulla tecnologia. Il primo è quello dell’innovazione, per cui conta soltanto l’oggetto nuovo: tutte le narrazioni sono orientate a produrre la novità. L’altro mito complementare è quello della durevolezza, l’idea che gli oggetti, anche quelli più complessi come le infrastrutture, rimangano stabili e inalterabili una volta prodotti. In realtà, come sappiamo, tutti gli oggetti che ci circondano, per quanto ben progettati o realizzati, si degradano, si rompono, si corrodono: auto, caldaie e centrali nucleari... La riparazione necessaria ci è occultata e resa invisibile, «un lavoro sporco» che non deve turbare la nostra percezione, spesso svolto da manutentori poco visibili e malpagati. La nostra epoca nasconde la manutenzione e non accetta l’usura della tecnologia: al primo segno di degrado la nasconde, la bolla come inadeguata, la rimpiazza. Abbiamo interpellato i due autori, che ci hanno risposto in modo congiunto.
Com’è nata l’idea di un libro dedicato alla manutenzione, in un’epoca in cui ci si focalizza sulla novità tecnologica?
«Qualche anno fa stavamo studiando la complessa cartellonistica della metropolitana di Parigi che ogni giorno indirizza milioni di passeggeri. A un certo punto una dipendente della società ci chiese: “Avete incontrato i ragazzi della manutenzione?”. Per noi fu una rivelazione. Scoprimmo un mondo di cui a malapena intuivamo l’esistenza. Tornammo a guardare con occhi diversi i pannelli della metropolitana: notammo segni di deterioramento, corrosione, pezzi rubati o mancanti. Entrammo in contatto con altri studiosi che si occupano di questi temi. L’idea iniziale era di scrivere una rassegna della letteratura già disponibile, ma poi gradualmente è nata l’idea di un libro più accessibile anche ai non addetti ai lavori».
Perché la «retorica dell’innovazione» è così dominante, tanto da impedirci di riconoscere l’importanza della manutenzione?
«A dominare è soprattutto una certa narrativa dell’innovazione, quella schumpeteriana dell’innovazione disruptive in cui la nuova tecnologia spazza via la vecchia. A questo si aggiunge la volontà di molte aziende, oggi, di controllare il ciclo di vita dei propri prodotti, la cosiddetta “obsolescenza programmata”. I nostri smartphone sono costruiti per durare pochi anni e poi obbligarci a comprarne uno nuovo. La memoria si intasa, le batterie non possono essere sostituite. Ripararli, così come rammendare un abito, è reso meno conveniente che comprarne uno nuovo».
Forse giocano un ruolo anche certe dinamiche della politica contemporanea, per cui paga di più, in termini comunicativi, inaugurare una nuova infrastruttura, rispetto a conservare in buono stato ciò che c’è già?
«Certamente. La manutenzione non è un “evento”, non fa notizia, non è “drammatica”, ed è abitualmente nascosta agli utilizzatori per non turbare il loro comodo uso delle infrastrutture. Soprattutto nella parte più ricca del mondo, le infrastrutture sono realizzate e poi in un certo senso abbandonate a sé stesse e al loro invecchiamento».
Nel libro sottolineate come perfino la tutela dell’ambiente, oggi, sia spesso affidata alla costruzione di nuovi oggetti e soluzioni tecnologiche, più che alla conservazione di quelli che possono ancora funzionare, che eviterebbe la necessità di costruirne di nuovi. Viene in mente uno studio di «Nature» secondo cui il peso degli oggetti creati dall’uomo ha superato quello di tutti gli esseri viventi...
«Sì, un certo tipo di narrativa ecologista oggi è molto parziale. È senz’altro giusto che ci prendiamo cura degli esseri viventi, ma non dobbiamo dimenticare che gli esseri viventi, e in particolare gli esseri umani, convivono con gli oggetti e le tecnologie. Abbiamo perso sensibilità per le cose. Quando decidiamo di rimpiazzare un oggetto a casa o in ufficio, quello vecchio che fine fa? Un certo modo di intendere l’innovazione oggi è come una continua produzione di rifiuti: il riciclo è un mito che produce tonnellate di residui e la cosiddetta “economia circolare” non è poi così circolare...».
Pensiamo alle App oggi molto popolari tra i ragazzi per rivendere abiti non più graditi: si cambia l’utilizzatore anziché far durare davvero l’oggetto...
«Infatti, ed è ormai dimostrato che questi sistemi hanno paradossalmente l’effetto di incentivare nuovi acquisti e nuovi consumi».
Denis e Pontille ci invitano a guardare con saggezza e perfino con compassione gli oggetti intorno, i loro segni di invecchiamento, come rughe di cui prendersi cura anziché come relitti di cui sbarazzarsi. Come cantava Leonard Cohen, «There is a crack in everything, that’s how the light gets in»: c’è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce.