La Stampa, 21 febbraio 2024
Romanzi, saggi e i dubbi sull’identità linguistica
Negli ultimi anni abbiamo imparato a mettere in dubbio la solidità della distinzione fra romanzo e saggio: si deve anche alla popolarità dell’autofiction – genere che ultimamente ha visto grandi maestri in Walter Siti, Annie Ernaux e Jon Fosse. La trasformazione è stata particolarmente evidente nell’ultimo premio Strega, fra i cui cinque finalisti nessuno era puramente finzione. Ma è un fenomeno recente: meno di vent’anni fa, all’uscita di Gomorra di Roberto Saviano, ci fu un dibattito molto acceso se collocarlo al di qua o al di là del confine fra realtà e finzione. Da allora quel confine si è fatto più sfumato, poroso.
Altri confini no. Ad esempio, la distinzione fra letteratura italiana e straniera risulta rigidissima: esigiamo di poter dire, di ogni romanzo, a quale dei due campi appartiene. Lo esigiamo per ragioni burocratiche – in che scaffale va collocato un volume, a quali premi può concorrere – ma non solo: leggere una storia, pensarla “nostra” o “altrui”, influenza come la consideriamo. In un’epoca di costante scambio culturale e migrazioni planetarie, la sensatezza di questa partizione è sempre più difficile da sostenere: eppure resiste. Nel 2024, per scrittori e scrittrici, è più facile cambiare passaporto che cambiare scaffale.
È una cosa di cui ho esperienza personale. Ho vissuto a Berlino per quattordici anni, parlavo la lingua, ne avevo letto i classici e gli autori contemporanei (alcuni li frequentavo), ho scritto un romanzo su Berlino, Le perfezioni (Bompiani, 2022), che è uscito in tedesco. Eppure è stato letto come un libro straniero, riservandomi il beneficio del profeta-fuori-patria o l’antipatia dell’ospite che fa il saccente in casa altrui. Addirittura, i miei protagonisti – di cui non specifico la nazionalità proprio per sabotare gli stereotipi – sono stati visti come italiani. Ciò che avevo da dire su Berlino non apparteneva al discorso sulla città vivissimo nel romanzo tedesco. Il mio libro era qualcos’altro: metà guastatore nemico, metà curiosa creatura.
Quest’esperienza, oggi, è sempre più frequente. Nessuno, forse, la conosce meglio di Jhumpa Lahiri, che ha scritto quattro libri in inglese (con uno dei quali ha vinto il Premio Pulitzer) e quattro in italiano sentendosi vista sempre, nelle sue parole, come “né carne né pesce”. Appiattita negli Stati Uniti sulle origini bengalesi della sua famiglia, Lahiri in Italia si ritrova con i suoi Racconti romani (Guanda, 2022), scritti in italiano dopo aver vissuto oltre un decennio a Roma, invariabilmente considerati letteratura straniera. «Nel mondo di oggi accettiamo che si possa cambiare ogni aspetto della propria identità, corpo incluso – mi dice – ma l’identità linguistica è il confine per eccellenza». Per quanto tu possa padroneggiare la lingua, conoscere la tradizione letteraria, vivere da decenni in una città, qualcuno sarà messo a disagio dal tuo cambiamento, considererà la tua prospettiva e la tua voce sempre come altre.
Capiterà ovunque: quegli stessi racconti, tradotti da Lahiri stessa, sono considerati stranieri anche in inglese; lo stesso è capitato a Francesco Pacifico, che ha riscritto in inglese il suo romanzo Class (Mondadori, 2021), peraltro ambientato quasi integralmente a New York. Espérance Hakuzwimana, da quando con Tutta intera (Einaudi, 2022) ha deciso di pubblicare senza il cognome della famiglia adottiva i romanzi che scrive in italiano, spesso li trova catalogati come letteratura straniera.
Non è solo un problema intimo, di accettazione o “integrazione”, anche se a livello personale brucia – «una ricerca sempre fallimentare di appartenenza», dice Lahiri – : è un problema letterario. Le categorie con cui pensiamo la letteratura non corrispondono più a ciò che la letteratura fa e alle vite di chi la produce. Le storie che raccontano il mondo di oggi attraversano le lingue e confondono i confini in modi che rendono difficile e probabilmente vano incasellarle in un discorso nazionale.
Un esempio particolarmente brillante, in questo senso, è Tangerinn, il bel romanzo d’esordio di Emanuela Anechoum (Edizioni e/o, 2024). L’autrice è italo-marocchina, come la protagonista Mina; il libro si chiude con un glossario di termini arabi. La vicenda parte in una Londra cosmopolita di influencer e bar esclusivi; si sofferma per vasti tratti sulla vita a Casablanca nel ‘900 e su quella, oggi, in un paesino del Sud Italia che accoglie quotidianamente gli sbarchi dei migranti; si chiude, di nuovo, fra Londra e Tangeri. È una storia che parla di expat, cioè migranti ricchi e tendenzialmente bianchi, e di rifugiati, cioè di expat poveri e tendenzialmente non-bianchi, problematizzando la distinzione fra i due: racconta il sogno europeo di un ragazzo marocchino negli anni Settanta, e quello londinese di sua figlia nata in Italia. L’ovvia differenza fra le loro esperienze è percorsa dallo stesso senso di irriducibilità a una singola categoria nazionale.
Anche Tangerinn a volte viene classificato erroneamente come letteratura straniera, forse per il titolo, forse per un’associazione stereotipata al cognome dell’autrice. Ma esiste un senso in cui – come nel caso dei racconti di Lahiri, del romanzo di Pacifico e del mio – questa confusione dimostra che è la classificazione stessa a non avere più senso. Due temi centrali del libro di Anechoum – la mobilità europea e l’intensificarsi dei flussi migratori, con la conseguente tragica chiusura dei porti – sono fra le questioni più importanti del nostro presente: ma – ne scrivevo su queste pagine già qualche settimana fa, in termini diversi – la loro stessa natura le rende sovranazionali. Le storie che ne parlano non si esauriscono in alcun singolo scaffale, appartengono a tutti e a nessuno. È esattamente ciò che accade alla protagonista di Tangerinn: Mina appartiene in sensi diversi a Londra, all’Italia, persino al Marocco in cui non ha mai vissuto, ma non si sente a casa in nessuno di essi. «Non sono del tutto a mio agio, qui», dice dopo essere tornata dall’Inghilterra nel paesino natale – ma potrebbe dirlo ovunque. «Forse – le rispondono – questo disagio può insegnarti qualcosa». —