La Stampa, 21 febbraio 2024
Staminali, una rivoluzione sofferta
Le rivoluzioni, in campo scientifico, a volte non necessitano di molto spazio. Nel 1998, un articolo di appena 1400 parole del biologo statunitense James Thomson, pubblicato sulla rivista “Science”, ha rivoluzionato la ricerca nel campo delle scienze della vita. Nel suo paper, Thomson descriveva come avesse isolato, per la prima volta, dalla blastocisti umana (primo stadio dell’embrione) 40-50 cellule staminali embrionali contenute al suo interno, riuscendo a propagarle in laboratorio e ottenerne centinaia di milioni. Le embrionali sono cellule potenzialmente in grado di “trasformarsi” (il termine tecnico è “differenziare") in tutti i 250 tipi di cellule che compongono i tessuti dell’organismo e, sempre potenzialmente, di sostituire o riparare quelle danneggiate da malattie. La portata rivoluzionaria della scoperta fu subito chiara, ad esempio, ai neuroscienziati dell’Università di Lund Anders Björklund e Olle Lindvall, pionieri del trapianto cellulare per il trattamento della malattia di Parkinson. Per loro la scoperta di Thomson significò la possibilità di produrre, e quindi avere a disposizione per i test, cellule staminali embrionali umane da “istruire” per diventare quegli stessi identici neuroni dopaminergici persi nel Parkinson.
Anche nel mio laboratorio all’Università Statale di Milano quell’articolo di Science ebbe un effetto dirompente. Noi studiamo l’Huntington, altra difficile malattia neurodegenerativa che comporta la perdita di neuroni del cervello. Nell’esplorare ogni strategia scientifica e razionale possibile, quella delle staminali embrionali da cui ottenere i neuroni desiderati ci apparve subito una strada irrinunciabile. Ma in Italia il lavoro di Thomson scatenò un acceso confronto su quale fosse lo status biologico dell’embrione e su cosa dovesse intendersi per “ricerca etica”. Quel dibattito ebbe come esito una legge proibizionista (la n. 40 del 2004) in cui, tra i tanti divieti “in materia di procreazione medicalmente assistita”, fu introdotto anche quello di ottenere quelle preziose linee cellulari staminali dalle blastocisti sovrannumerarie destinate ad un “congelamento distruttivo”. Per i ricercatori che trasgrediscano, è previsto il carcere.
Un divieto imposto per ragioni ideologiche, con l’ipocrisia però di permettere, per legge, agli studiosi di importare dall’estero quelle stesse cellule: “liberi tutti” di fare ricerca con le staminali derivate dagli embrioni, purché siano altri, oltre confine, a ottenerle. Il mio laboratorio fu il primo in Italia ad importarle, dopo aver ottenuto tutti i pareri etici favorevoli. Basterebbe riflettere sull’ipocrisia di questo paradosso vissuto dai ricercatori italiani per dare il polso dell’inconsistenza scientifica e giuridica di quel divieto.
Spesso – si pensi anche alla sperimentazione animale, al miglioramento genetico delle piante o alla carne coltivata – nel nostro Paese vengono confusi insieme due piani che, invece, dovrebbero rimanere ben distinti: il primo è la descrizione della realtà che ci viene restituita dalla ricerca scientifica, il secondo è l’enunciazione di convincimenti etici ed ideologici legittimi, su cui si può concordare o dissentire.
Quel che all’epoca mi colpì, e non cessa di rammaricarmi, fu che, nel corso del dibattito sui referendum mirati all’abrogazione dei divieti presenti nella legge 40, alcuni studiosi furono pronti a giustificare con una patina di scientificità quella decisione ideologica, definendo inutili a priori le ricerche ipotizzabili su quelle cellule che avevamo appena cominciato a conoscere. Come se non cozzasse contro ogni logica scientifica dichiarare inutile ciò che ancora deve essere studiato, provato, capito.
Sono passati esattamente vent’anni da quando quella legge è stata promulgata/entrata in vigore e, in contrasto con le affermazioni insensate di allora, oggi le staminali embrionali umane sono in sperimentazione clinica per il Parkinson, per il diabete, per la degenerazione della macula dell’occhio. Studi (irrinunciabili) sul modello animale di Parkinson, condotti nel 2011 e nel 2014, hanno dimostrato che quelle cellule, istruite a diventare neuroni dopaminergici e trapiantate, sono in grado di sopravvivere, differenziarsi e rilasciare dopamina producendo un marcato recupero del comportamento nell’animale.
È grazie a queste conoscenze che in Svezia, Usa, Corea del Sud e in Giappone (usando, in questo caso, neuroni da cellule riprogrammate) si è arrivati ad avviare quattro sperimentazioni sull’uomo per il trattamento della malattia. Ne conosceremo gli esiti tra qualche anno, ma la strada è tracciata. Eppure, in Italia, il divieto di derivare staminali da embrioni sovrannumerari resiste, mentre la maggior parte degli altri divieti, dannosi alla salute delle donne, sono stati cancellati, uno dopo l’altro, dalla Corte costituzionale, soprattutto grazie all’impegno diretto di tante coppie assistite dall’Associazione Luca Coscioni.
Non è mia intenzione discutere il convincimento di chi ritiene non etico l’utilizzo di embrioni sovrannumerari per la ricerca, bensì ribadire che proibirlo per legge era scientificamente insensato già due decenni fa, poiché liquidava come inutile ogni possibile studio in quel campo, ma lo è ancora di più oggi, alla luce della conoscenza accumulata.
Credo sia compito della comunità scientifica riportare il tema all’attenzione del legislatore, presentando tutte le evidenze scientifiche necessarie a spiegare che queste ricerche e il superamento di quel divieto sono essenziali al perseguimento di scopi “costituzionalmente rilevanti”, come la tutela della salute, diritto fondamentale dell’individuo e interesse primario della collettività.
Interesse che oggi si traduce prioritariamente nel fare di tutto per curare malattie neurodegenerative come Parkinson, Huntington e molte altre. Difficile immaginare una finalità più urgente, nobile, preziosa e in accordo con la dignità della persona umana. —