il Giornale, 21 febbraio 2024
Platone, la politica ideale non esiste
«Quand’ero giovane io, era ancora valida la scomunica del Bentley contro tutto quello che nell’antica letteratura greca si dà per lettera. Poi, a poco a poco, i tempi mutarono: gli studiosi si andarono man mano convincendo che non era lecito trattare le lettere come dicono usi o usasse fare con i negri accusati di delitti in certi dominions, supponendoli senz’altro colpevoli, finché non riuscissero a dimostrare la loro innocenza: questo metodo porta notoriamente a uccidere molti incolpevoli». È il 13 marzo 1938 quando il cinquantatreenne esimio professor Giorgio Pasquali (1885-1952) scrive così nella «Prefazione» al suo saggio Le lettere di Platone, edito in Firenze da Le Monnier. Dunque il 13 marzo 1938, giorno dell’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista, primo passo verso la tragedia della Seconda guerra mondiale, Pasquali ricorda e celebra l’«annessione» pacifica al suo bagaglio di filologo della parte più problematica della bibliografia platonica. Non certo quanto a dottrina, bensì relativamente agli interrogativi (che in parte ancora oggi sussistono) sull’attribuzione delle lettere al filosofo.
Il problema si pose fin da quando Trasillo, nel primo secolo dopo Cristo inserì i tredici scritti in coda alla raccolta platonica. Abbiamo visto che Pasquali, come i suoi colleghi più avveduti (e giuridicamente retti), parte dalla loro presunzione d’innocenza, fino a prova contraria. E qui, nel libro ora riedito da Neri Pozza (pagg. 336, euro 20, in libreria dall’1 marzo), istruisce il processo sull’autenticità. Processo la cui sentenza viene sunteggiata nella stessa «Prefazione»: buone la VI, la VII, la VIII e la XI e per il resto condanne in quanto «spurie» o «false». Una bella quaterna, da giocare sulla ruota di Siracusa. Perché lì, nella Sicilia del quarto secolo prima di Cristo, sballottata fra la crudeltà dei tiranni, l’anarchia del «partito popolare», le insidie portate dai Cartaginesi e dagli Oschi, e troppo incline, a giudizio di Platone, ai piaceri alcolici e carnali, il filosofo trovò, più nolente che volente, il proprio laboratorio politico. Ovvero, il luogo dove tentare la discesa in campo, quindi in politica, delle idee.
Pasquali, scrupolosissimo esegeta dei testi, non si sofferma molto sulla loro datazione. Conviene dunque rifarsi a quanto suggerisce Margherita Isnardi Parente, curatrice dell’edizione 2002 delle lettere per la Fondazione Lorenzo Valla. E dunque notare e sottolineare che, per la nostra quaterna, siamo di fronte a un Platone molto anziano: la VI lettera è collocabile addirittura a poco prima della sua morte (a 81 anni), nel 347; la VII al 353; la VIII al 351; la XI al 361. Ma facciamo non uno, bensì molti passi indietro. Platone scrive nella VII, indirizzata «Ai familiari e agli amici di Dione»: «Quando ero giovane mi capitò di pensare, come accade a tanti altri giovani, che mi sarei dedicato alla vita politica non appena fossi divenuto padrone di me stesso». Poi spiega i motivi per cui nella sua Atene questo non fu possibile. Sappiamo bene del sacrificio di Socrate, ma sappiamo meno bene quando iniziarono i suoi guai con il potere, nel 404: «Fra le altre cose essi (i Trenta tiranni, ndr) disposero che un mio amico, più anziano di me, Socrate, un uomo che io non esito a ritenere il più giusto fra quelli del suo tempo, andasse insieme con altre persone ad arrestare un cittadino (Leone di Salamina, ndr) condannato a morte: cercavano in tal modo di renderlo, volente o nolente, loro complice. Egli però non volle obbedire e preferì rischiare la vita piuttosto che essere coinvolto nelle loro azioni scellerate». Ecco, detto papale papale: Platone non volle correre il rischio di fare la stessa fine del suo maestro.
Ma poi entra in scena il Fato. Nel 388 il filosofo, giunto in Sicilia per studiare l’Etna, viene invitato da Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, alla sua corte. Qui conosce il cognato del tiranno, Dione, il quale in breve diventa suo discepolo. Apriti cielo: per Dionisio quei discorsi sul Bello e sul Bene sono fumo negli
occhi, e caccia il filosofo. Nel 367 il Vecchio muore, e gli succede il nipote, Dionigi il Giovane. Vogliamo riprovare, chiede Dione a Platone, a mettere in pratica la sublime idea del governo dei filosofi? Il maestro tergiversa e poi accetta. Cadendo dalla padella nella brace, perché il Giovane si dimostra peggiore del Vecchio, e inoltre infuria la guerra civile.
Pasquali, nell’esame della VIII e della VII, fatalmente da filologo inclina alla politologia e alla filosofia. Scrive a proposito della VIII, anch’essa indirizzata «Ai famigliari e agli amici di Dione»: «Platone alla salute della sua nazione fa sacrificio dei suoi ideali statali: conviene ormai tentare di salvare quel che si può. Egli supplica i Greci di Sicilia, supplica in particolare i suoi amici per quello che questi hanno di più caro, la memoria di Dione, di consentire a un accordo: di concedere ai pretendenti almeno il titolo regio, purché si concilino tra loro e con i Dionei e facciano tutti fronte comune contro i nemici esterni, Cartaginesi e Oschi». È un suo vecchio cavallo di battaglia: quando non è possibile salire verso il Bene, almeno si mitighi il suo contrario, scendendo dalla tirannide alla monarchia, anzi alla monarchia divisa per tre, perché tre sono gli uomini che indica da porre in trono.
In merito alla VII, lo studioso fa anche di più: esamina il sottotesto. «Le stesse proporzioni contrassegnano la scrittura destinata alla pubblicazione non altrimenti e non meno dei dialoghi; ed è verosimile, per quanto manchi ogni testimonianza, che la segreteria stessa dell’Accademia abbia allestito e diffuso un certo numero di esemplari». Cioè: l’ufficio stampa platonico ha ben lavorato, facendo di una missiva confidenziale una specie di nota ministeriale per diffondere il pensiero del capo, in cui peraltro si prendono anche le distanze dagli eccessi degli amici... Non solo: «Si deve dire che qui Platone sorvola apologeticamente su un punto di cui (...) gli fu già allora fatto carico: la sua polis ideale sarebbe stata il dono di un tiranno, avrebbe forse avuto a capo un tiranno. Quest’idea né poteva trovar favore fra gli Ateniesi, democratici per lunga tradizione, né era conforme allo spirito che domina nella Repubblica».
Dopo il buco nell’acqua fatto in Sicilia, Platone ci riprova altrove, sulla costa occidentale dell’attuale Turchia, ad Atarneo e Asso. Questa volta provando a proporre, per il buongoverno, tre suoi allievi: Ermia, Corisco ed Erasto. E, poco prima di morire, scrive loro la VI, sperando che, spiega Pasquali, «la sua scuola assumesse il patronato di quel nuovo stato. Che esso fosse ancor molto minore della Siracusa di Dione, che su esso non potessero mai fissarsi gli sguardi dei Greci e del mondo, questo egli non se lo sarà certo celato; e in cuor suo si sarà detto che Ermia poteva incarnare i suoi ideali ancor molto meno che Dione privato della potenza di Dionigi. Ma meglio poco che nulla. E lo stato di Ermia doveva essere asserzione dell’aretè ellenica contro il nemico secolare, il Persiano: le lettere VII e VIII mostrano quanto stesse a cuore a Platone la causa nazionale».
Ultima, la più vecchia della quaterna, è l’XI. Siamo nel 361 circa a Taso, isola nell’estremo Nord dell’Egeo nota per l’estrazione dell’oro, e Laodamante, matematico platonico, chiede a Platone consigli a proposito della realizzazione lassù di una colonia greca. Pessima idea, andare a sfruculiare Filippo II di Macedonia, il quale infatti si impossesserà dell’isola poco dopo. Platone nicchia, adducendo la sua età (67) e le insidie del viaggio, e risponde che non bastano le buone leggi, occorre anche un leader che le faccia rispettare. Taglia corto con un «Non vi resta che invocare gli dèi» e un «Buona fortuna». Chiosa Pasquali: «Fare di una colonia guerresca e mercantile un modello per esperimenti pedagogici e filosofici era compito quasi impossibile; e chi sa se Laodamante sarebbe mai riuscito a indurre i suoi concittadini a tentarlo». Le buone idee, perché si realizzino, hanno bisogno che i fatti diano loro una mano.