la Repubblica, 20 febbraio 2024
Trent’anni fa usciva il romanzo di Antonio Tabucchi che divenne un caso politico più che letterario. Perché accusava la revanche fascista
C’era una volta un Paese in cui un romanzo diventava un caso politico. Poteva accadere che la storia di un giornalista cardiopatico nel Portogallo sotto la dittatura di Salazar diventasse il detonatore di una furiosa polemica fra berlusconiani e antiberlusconiani. E che le reazioni a una storia di finzione fossero feroci, ideologicamente feroci. Raccontando Sostiene Pereira come un libro «astratto, finto, prevedibile» sulle colonne del Giornale da poco orfano di Montanelli, lo scrittore Luca Doninelli gettò il libro di Antonio Tabucchi in un agone arroventato. Extra-letterario? Sì e no. Di sicuro, condizionato pesantemente dal nuovo clima politico: era l’inizio del 1994. Silvio Berlusconi, annunciata la discesa in campo, si apprestava a diventare presidente del Consiglio per la prima volta.
È un anno di bestseller: Va’ dove ti porta il cuore, Jack Frusciante è uscito dal gruppo. È l’anno dell’esordio di Ammaniti. E poi, per l’appunto, c’è Sostiene Pereira: l’invenzione felice di un grande lusitanista già molto affermato come narratore. Tabucchi arriva al grande pubblico e alla fama internazionale – mezzo milione di copie in breve tempo, il film di Faenza con Mastroianni – raccontando il risveglio di una coscienza.
Il cronista stanco che si trascina per Lisbona mangiando omelette e bevendo limonate incontra un giovane attivista e non solo vede in lui il figlio che non ha avuto: si lascia trascinare nella passione politica e nel rischio. D’altra parte, dialogando in treno con una signora che legge Thomas Mann, il povero Pereira si era sentito rimproverare: «Faccia qualcosa... Lei è un intellettuale, dica quello che sta succedendo in Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma faccia qualcosa». Pereira vorrebbe accampare scuse, dire che sono tutti imbavagliati, che sopra di lui c’è un direttore legato al regime, che la portinaia di casa sua è una confidente della polizia. Non dice niente, dice solo che farà del suo meglio.
E in effetti, a un certo punto, Pereira ha il suo scatto: si riaccende, dà protezione a chi si batte contro il regime, inguaiando così il tipografo del giornale per cui scrive. Perfino su questo dettaglio ci fu baruffa, qualche anno più tardi: tra Tabucchi e il suo collega coetaneo Franco Cordelli. Il quale rimproverò a Pereira e al suo autore di avere dato spazio a un gesto vile o irresponsabile: in sostanza, un tradimento. Tabucchi rispose per le rime. Così come gli toccò fare con chi lo accusava di avere scritto «un pamphlet elettorale» antiberlusconiano travestito da romanzo: se da un lato non gli dispiaceva che la letteratura infiammasse animi e polemiche, dall’altro era tenuto a ricordare di avere concluso la stesura nell’estate del 1993, prima dell’annuncio dell’ingresso del Cavaliere in politica.
Semmai, ambientando la vicenda nel ’38, intendeva richiamare da lontano certi «rigurgiti» neri in Italia e in Europa. Un immarcescibile fascismo globale, un’onda lugubre che non si spegne mai del tutto ed è alimentata anche dall’indifferenza di molti. Che cosa direbbe Tabucchi davanti alle braccia alzate per Acca Larentia o al matrimonio in salsa neonazista celebrato a Varese? Che la destra italiana – così scrisse – continua a guardare al fascismo «con rinnovato affetto»?
Il 25 aprile del 2001 – mentre Cossiga chiedeva di sciogliere Forza Nuova – Tabucchi inviò una lettera aperta al presidente della Repubblica Ciampi: «È un momento molto grave, e i cittadini non possono essere indifferenti alla scelta tra fascismo e antifascismo, né tantomeno equidistanti o neutrali. La nostra democrazia è giovane e fragile, è necessario dedicarle la massima vigilanza». Un battagliero spirito antifascista spirava anche in un romanzo di pochi anni dopo, Tristano muore. Nella canicola agostana, un uomo con la gamba in cancrena fa i conti con il ventesimo secolo appena tramontato. Giuliano Ferrara, sul Foglio, commissionò ben sette stroncature consecutive. Ho chiesto al custode del Fondo Tabucchi, a Parigi, di poterle leggere. Pagine atrofiche, imbarazzanti, accusavano i sette stroncatori; uno in particolare parlava sprezzante di «ambaradan resistenziale». A rileggere a dieci anni di distanza quei pezzi pateticamente a tesi, rispunta una domanda: perché erano così irritati, Ferrara e gli stroncatori?
In una pagina di Tristano muore, Tabucchi scrive con sarcasmo: «Il popolo italiano ha sempre combattuto il fascismo, sempre, di essere fascista non si è mai sognato, il popolo italiano… Ero io che sognavo, pensa Tristano, combattevo contro nessuno, i fascisti non sono mai esistiti, me li immaginavo io…».
E invece no, sono esistiti. È esistita quell’Europa che – come si legge in Sostiene Pereira – puzzava di morte. Il vecchio giornalista cardiopatico non ha il naso chiuso, e nemmeno gli occhi, ma l’età e l’inerzia lo rendono come congelato. Però i due giovani dissidenti entrati nella sua vita gli fanno venire un dubbio: e se avessero ragione? «In tal caso avrebbero ragione loro, disse pacatamente il dottor Cardoso, ma è la Storia che lo dirà e non lei, dottor Pereira. Sì, disse Pereira, però se loro avessero ragione la mia vita non avrebbe senso». Messo di fronte alle torture che il “partigiano” Monteiro Rossi subisce in un agguato, Pereira non può più rinviare l’appuntamento con la scelta. Dimentica la propria paura. Rimette in gioco quello che Herta Müller ha definito «l’impenetrabile equilibrio fra dignità e sottomissione». Sceglie. E ricorda a sé stesso che non c’è tempo da perdere