Corriere della Sera, 19 febbraio 2024
La diplomazia mondiale in mano agli emiri
Fino a 10-15 anni fa, i Paesi del Golfo erano considerati niente di più che i benzinai del mondo. Regni governati da emiri e sceicchi in affari con l’Occidente, quasi solo per il petrolio; despoti sostanzialmente indifferenti alla grande politica internazionale. Oggi Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar sono al centro di cruciali partite geopolitiche ma, nello stesso tempo, continuano a essere monarchie ereditarie che negano ai cittadini il diritto di voto, di libera espressione e di costituire partiti o sindacati. In questi tre Paesi si applica la sharia, la legge di derivazione islamica, sia pure con sfumature diverse. Le maggiori discriminazioni riguardano ancora le donne. Per gli omosessuali è prevista la pena di morte, anche se negli ultimi anni non è stata applicata. In Arabia Saudita l’esecuzione capitale, per i reati che la prevedono, ammette anche la decapitazione con la spada. Nel 2023 ci sono state 170 esecuzioni, contro le 147 nel 2022. Ancora il 24 gennaio 2024 l’Agenzia delle Nazioni Unite per i diritti umani ha diffuso un rapporto che contiene 354 raccomandazioni che il regime di Riad dovrebbe adottare per garantire i diritti politici e civili a tutta la popolazione. Secondo l’intelligence americana, il principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammad bin Salman Al Saud, sarebbe stato il mandante dell’omicidio premeditato del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018.
Per anni gli americani hanno sospettato che l’Arabia Saudita fosse tra i finanziatori del terrorismo islamico. Ma gli ultimi rapporti del Dipartimento di Stato, diffusi nel 2022, sottolineano come sia l’Arabia Saudita sia gli Emirati Arabi ora collaborino con gli organismi internazionali per bloccare i finanziamenti alle formazioni fondamentaliste. Tutto dimenticato quindi. Evidentemente neanche gli Stati Uniti, ormai, possono fare a meno della nuova centralità geopolitica ed economica dell’Arabia Saudita. Lo stesso discorso vale anche per il Qatar, che pure continua a finanziare i Fratelli musulmani, i terroristi di Hamas e una miriade di sigle che fanno capo all’Iran.
La carica degli eredi
La svolta risale ai primi anni Duemila, quando una nuova generazione si affaccia al potere nel Golfo. Uno dei personaggi chiave è sicuramente il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman Al Saud, 38 anni. Più o meno nello stesso periodo, negli Emirati emerge Mohammed bin Zayed Al Nahyan, 62 anni, diventato sovrano di fatto nel 2014, fino all’ufficializzazione della carica di presidente nel 2022. I due sono stretti alleati in politica estera, ma anche rivali per il primato personale nella regione. La terza figura è lo sceicco del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani. I nuovi leader affiancano alla rendita basata sul petrolio e gas, imponenti investimenti. Bin Salman ha convogliato tra i 400 e 700 miliardi di dollari nel Pif, il fondo sovrano Public Investment Fund. Con questa leva finanziaria sta investendo in energie rinnovabili, trasporti, fabbriche automatizzate, società del digitale, turismo, servizi sanitari.
Gli Emirati seguono una politica simile e fanno affari praticamente con tutti: Stati Uniti, Cina, Russia, Turchia, Unione europea, in particolare Francia e Italia, persino Iran. Il Qatar ha intensificato il business con Usa, Paesi europei, specie Francia e Italia, Turchia. La politica economica è accompagnata da operazioni di marketing sociale e culturale. Per esempio l’Arabia Saudita ha reclutato diverse star del calcio mondiale e ha appena ottenuto l’assegnazione dell’Expo 2030. Il Qatar ha organizzato i Mondiali di calcio del 2022. Gli Emirati si sono candidati per ospitare la Cop28, che si è tenuta a Dubai nel 2023. Nessuno ha avuto obiezioni, anche se il Paese è il sesto produttore di petrolio nel mondo. Si sono anche aperti all’Opera italiana, ospitando l’Orchestra del Teatro alla Scala e il «Puccini Opera Gala».
Il nuovo crocevia
Piano piano Arabia Saudita, Emirati e Qatar sono diventati un punto di riferimento mondiale. In parallelo è iniziata la normalizzazione dei rapporti con Israele, con i cosiddetti «Accordi di Abramo». I primi a firmare il protocollo sono stati il Bahrain e gli Emirati Arabi, il 13 agosto 2020. Poi il Marocco, il 10 dicembre 2020 e il Sudan, 6 gennaio 2021. L’attacco terroristico di Hamas (7 ottobre 2023) ha bloccato la firma finale che prevedeva il riconoscimento ufficiale di Israele da parte di Riad, in cambio di una serie di intese commerciali e, soprattutto, della clausola che imponeva agli americani di garantire la protezione militare dell’Arabia Saudita. Gli Stati Uniti restano il punto di riferimento per la sicurezza militare dei Paesi del Golfo. Ma non hanno più l’esclusiva. L’Arabia Saudita, per esempio, acquista il 73% del proprio fabbisogno di armi dagli Usa, con contratti che valgono 126,6 miliardi di dollari. Ma ciò non impedisce al principe bin Salman di coltivare rapporti con tutti gli avversari di Washington, a cominciare da Putin, accolto a Riad nonostante il mandato di arresto internazionale.
Dal primo gennaio 2024 Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono entrati a far parte dei Brics, il gruppo alternativo all’Occidente formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Oltre ai due Paesi del Golfo sono stati ammessi nel club Iran, Egitto ed Etiopia. I progetti sono ambiziosi. Uno su tutti: puntare su una moneta comune che possa scalzare il primato finanziario mondiale del dollaro.
Rete multiuso
Proviamo a seguire la rete geopolitica tessuta da sauditi ed emiratini. Sono stretti alleati degli Usa, ma hanno offerto una sponda preziosa a Putin, non solo ignorando le sanzioni imposte dall’Occidente dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, ma sostenendone anche le quotazioni del greggio. Usano i dollari, ma hanno accettato il sodalizio con la Cina, il Paese leader di fatto dei Brics. Riconoscono il diritto all’esistenza di Israele ma, grazie alla mediazione di Pechino, hanno aperto all’Iran che vorrebbe cancellare l’esistenza dello Stato ebraico. Il Qatar ospita la più grande base americana della regione (15 mila militari nello scalo aereo di Al Udeid) e, nello stesso tempo, passa circa 30 milioni di dollari all’anno ad Hamas. Nel gergo diplomatico questo tipo di politica estera si definisce «multivettoriale». Nel linguaggio comune si chiama opportunismo senza limiti. Nel vuoto giuridico, viste la sostanziale paralisi dell’Onu e l’inefficacia dei Tribunali internazionali, guadagnano spazio quei Paesi che «parlano con tutti».
Gli Stati Uniti e gli europei non sono più in grado di farlo. In un’epoca di incertezza, Arabia Saudita, Emirati e Qatar sono diventano i mediatori perfetti.
Gli intermediari
Il Qatar allestisce, a Parigi e al Cairo, i tavoli principali per la trattativa tra americani, israeliani, egiziani e Hamas. Tregua in cambio della liberazione di tutti gli ostaggi catturati dai terroristi. Gli Emirati hanno negoziato lo scambio di prigionieri tra Ucraina e Russia. Il 5 e il 6 agosto 2023 il principe saudita bin Salman ha organizzato a Gedda una conferenza per la pace tra Kiev e Mosca, cui hanno partecipato 38 Paesi, compresi quelli non ostili al Cremlino, come Cina, India, Brasile e Sudafrica. Nulla di fatto, ma la mediazione resta in campo. Il vento del Golfo arabo soffia anche sulla Libia, dove gli Emirati continuano ad appoggiare il generale Khalifa Haftar, il leader della Cirenaica che contende il potere alla Tripolitania, in un conflitto interno alimentato da Turchia, Egitto, Russia e Francia. I capitali degli Emirati Arabi e dell’Arabia Saudita, insieme a quelli degli americani, contribuiscono alla stabilità economica dell’Egitto.
Da ultimo il principe bin Salman ha deciso di partecipare anche al piano Mattei, lanciato da Giorgia Meloni, versando un contributo di 200 milioni di dollari sui 5,5 miliardi totali. Con gli Usa e la Cina, con Ue e Russia, con Israele e con l’Iran: affari e politica davvero senza confini.