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 2024  febbraio 19 Lunedì calendario

Biografia di Bepi Moro

«Mio padre lo ricordo sul letto, nel giorno della sua morte. Aveva un abito grigio e sul bavero della giacca la spilla della Nazionale. È stato sempre orgoglioso di aver fatto parte degli azzurri».
Inizia dalla fine il racconto di Flavio Moro, figlio di Bepi, iconico portiere del calcio italiano. Inizia dal pomeriggio del 28 gennaio di 50 anni fa, quando spirò appena 53enne, lasciando che fosse la storia a tracciare il consuntivo di una carriera e di una vita spericolata. Bepi Moro è stato l’antesignano di Higuita, Grobbelaar, Gatti e Chilavert, un personaggio dispari quando ancora non si poteva sfruttare più di tanto l’istrionismo a favore di telecamera. La sua vita, intensa e disordinata, sarebbe piaciuta a scrittori come Montalban e Soriano, ma è finita nel dimenticatoio, come se ci fosse un insolito pudore nel raccontarla. Persino Flavio, il figlio terzogenito, l’ha scoperta negli anni, passo dopo passo, mettendo assieme ritagli di giornali, fotografie e qualche raro filmato.
«Negli ultimi trent’anni ho raccolto qualsiasi cosa che lo riguardasse. Non è stato facile, ma alla fine sono riuscito a scrivere un libro, ad aprire una pagina social e ad aggiornare il suo profilo su wikipedia». Bepi è stato obnubilato, forse per quella vecchia storia legata al calcioscommesse. Un «si dice» da malelingue, perché non venne mai accertata alcuna irregolarità. «Ai tempi della Sampdoria lo accusarono di aver aggiustato un risultato, favorendo il pareggio. Ho recuperato la schedina che mio padre giocò quel giorno e c’era il segno 1. Ha pagato a caro prezzo il suo carattere bonario, a volte era davvero ingenuo e in molti se ne approfittarono».
La vita di Bepi Moro, nato a Carbonera, nel trevigiano, nel 1921, non ha nulla da invidiare alle montagne russe. È tutta un saliscendi che provoca vertigini e che denota quanto fosse irrequieto il suo animo. Scoprì la passione per il calcio, e per il ruolo del portiere, in modo fortuito. Un giorno suo padre Mosè, furioso per una marachella combinata dal giovane Bepi, iniziò a inseguirlo per casa. Erano al secondo piano e c’era la finestra aperta: Bepi si gettò nel vuoto, senza riportare un graffio, mentre suo padre, emulandolo, si ruppe il femore. Si sentiva un saltimbanco e iniziò la carriera da numero uno. La guerra non lo colse impreparato: tant’è che nel 1943 riuscì a fuggire saltando al volo da un treno mentre veniva inseguito dai tedeschi. Vestì la maglia di Treviso, Alessandria, Fiorentina e Bari. Fino a quando nel 1949 venne chiamato
al Torino, con una responsabilità non da poco: sostituire il leggendario Bacigalupo scomparso con la squadra degli invincibili a Superga. «Guadagnava 8 milioni a stagione – ricorda Flavio – per l’epoca era una cifra astronomica». Come contraddirlo? Siamo negli anni in cui Gilberto Mazzi sospirava al pensiero di «se potessi avere mille lire al mese». Nel Toro Bepi disputò un torneo sopra le righe, parando rigori, umiliando gli attaccanti simulando i movimenti di un pupazzo, o magari cercando di fermare la palla con una sola mano, oppure ancora occupandosi di recuperare il cappellino piuttosto che seguire le azioni di gioco, almeno trent’anni prima delle «gambe molli» di Grobbelaar o del temerario Gatti al Boca Juniors. Prestazioni che convinsero il ct azzurro Novo a convocarlo per i mondiali in Brasile, quelli che per intenderci l’Italia, ancora sotto shock per lo schianto di Superga, decise di affrontare con una trasferta di 16 giorni via mare. Nella gara con la Svezia, persa 3 a 2, giocò lo juventino Sentimenti IV, ma Bepi Moro trovò spazio nella partita successiva col Paraguay, mantenendo la porta inviolata. «Fu un mondiale disastroso, ma mio padre mi mostrava spesso con orgoglio la medaglia che il Presidente della Repubblica Einaudi gli consegnò poche settimane dopo al Quirinale». La carriera di Bepi proseguì tra Lucca, Genova (sponda Samp), Roma e Verona. «Quando giocò in maglia giallorossa fu protagonista di qualche prestazione poco brillante, e sa cosa fecero i tifosi? Gli riempirono la casa di farina, poi chiamarono la polizia dicendo che spacciava droga».
Da allenatore non trovò mai spazio in Italia, tant’è che fu costretto a emigrare in Tunisia, precursore dei tanti fautori dell’italian job. Nell’autunno 1965, di ritorno dal Maghreb, narrò al Corriere dello Sport vita e carriera, svelando parecchi particolari scomodi, molti dei quali riguardanti la facilità con cui le partite venivano truccate. Nove anni dopo morì per via di un male incurabile. «Da quel momento di lui non si parlò quasi più. Papà era argomento tabù persino in famiglia. Quando morì, Zoff ci regalò la sua maglia, oggi sparita. Negli anni solo Torino, Sampdoria e Lucchese l’hanno ricordato, per il resto il suo nome sembra non voler uscire da Porto Sant’Elpidio».