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 2024  febbraio 19 Lunedì calendario

La serie A a 20 squadre. Una formula nata per caso che ha fatto soltanto danni

I presidenti di Serie A stanno accapigliandosi attorno alla dibattuta questione del format del campionato – che dal 2004 è a 20 squadre mentre Juventus, Inter, Milan e Roma vorrebbero riportarlo a 18 – e uno dice: forse i motivi per cui vent’anni fa si passò da 18 a 20 sono superati, le ragioni che furono alla base dell’ampliamento del format non sono più attuali, il passare del tempo le ha rese anacronistiche, ha tolto loro senso. Un motivo ci deve essere, insomma: anche perchè ai tempi delle 18 squadre il calcio italiano era l’incontrastata potenza del calcio europeo, il più ricco, il più vincente e il più seguito; se a dispetto del suo grande successo lo si cambiò andando a ritoccarne e a modificarne i meccanismi, i motivi devono essere stati seri e le preoccupazioni per un possibile, incombente declino fondate.
Prendete ad esempio il calcio inglese. Che sconvolto dalle tragedie delle stragi dell’Heysel prima (1985, Juventus-Liverpool, 39 morti) e di Hillsborough poi (1989, Liverpool-Nottingham, 90 morti), bandito dall’Uefa da tutte le coppe per 5 anni e col governo che ridisegnò le norme di sicurezza degli stadi obbligando i club a ristrutturarli a norma o a costruirli ex novo eliminando le barriere tra gli spalti e il terreno di gioco, a installare telecamere di sicurezza ovunque e a prevedere solo posti a sedere numerati in sostituzione delle vetuste gradinate, fece sì che i club di Prima divisione della Football League – che aveva 4 divisioni – dessero vita nel 1992 alla Premier League. Fino a quel momento il calcio inglese si era svolto all’insegna del massimo egualitarismo: i soldi dei diritti tv pagati dalla Bbc venivano divisi in parti uguali tra tutti i club di tutte e 4 le divisioni (immaginate oggi Juventus, Palermo, Fermana e Pro Palazzolo che si dividono la stessa quota di soldi di Dazn e Sky) e solo nell’85 si era passati a una distribuzione più modulata: 50%, 25%, 12,5% e 12,5%. Ancora: una norma prevedeva che il 20% dell’incasso al botteghino finisse nelle tasche del club ospitato (un po’ come se Inter e Milan che a ogni match fanno 70 mila spettatori dessero un quinto dell’incasso all’Empoli, al Sassuolo e via dicendo).
Insomma: giuste o sbagliate che fossero le ragioni su cui i club ragionarono, la nascente Premier League decise con molto cinismo ma con molta lucidità – visto che alla fine tutto il movimento ne beneficiò – di cambiare tutto. A cominciare dai diritti tv sottratti alla Bbc e venduti a Murdoch (BSkyB) per la cifra allora considerata astronomica di 304 milioni di sterline per sole 60 partite. Quanto valgano oggi i diritti del calcio inglese è noto a tutti. Solo per il mercato estero la Premier riceve 2,1 miliardi a stagione cui si aggiungono i 2 del mercato nazionale; per capirci, la Serie A italiana ricava dal mercato mondiale 200 milioni, un decimo della Premier.
Ma tornando a bomba: per quale motivo, dunque, nel 2004 il nostro calcio mutò il format della Serie A portandolo da 18 a 20 squadre? La riposta è: per sbaglio. O per caso, come preferite. Successe che nel campionato di B 2002-03 il Catania, retrocesso, vinse una lunga guerra legale con la Figc facendo annullare tutte e 4 le retrocessioni. La B ripartì così nel 2003-04 con 24 squadre e per snellirlo venne deciso che a fine torneo ci sarebbero state 5 promozioni in A e 3 sole retrocessioni dalla A alla B. Fu così che la Serie A passò da 18 a 20 squadre: non per volontà, non per programmazione (giusta o sbagliata che fosse), ma per caso. E certo non solo per questo, ma tutto cominciò ad andare a rotoli. Poi un giorno arrivò Gravina.