il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2024
Ritratto di Domenico Rea
“Era lo spirito profondo, il grumo originario, lo sperma, l’essenza di Napoli”. Così La Capria alla morte di Domenico Rea. Trent’anni fa, nel gennaio 1994, il cordoglio per lo scrittore fu pressoché unanime. Celebrato anche da quella stessa Ortese che lo inchiodò, nel racconto che chiude Il mare non bagna Napoli, a un ritratto impietoso: un uomo autoritario, tutto preso dal culto di se stesso, che costringeva la moglie, nella loro casa dell’Arenella, a servirlo sotto gli occhi di un imbarazzato Pratolini. Tuttavia, in quel racconto che svelava le bassezze degli intellettuali partenopei, Rea emergeva come il più talentuoso.
In effetti, nell’immediato dopoguerra, pubblicato da Mondadori, fu uno degli enfant prodige della nostra narrativa grazie ai racconti “al lampo di magnesio” di Spaccanapoli del 1947 e di Gesù, fate luce del 1950. Emblematico La Segnorina dalla prima raccolta: una donna, Lenuccia, muore gridando “Maronna!” accoltellata dal marito che, tornato a Napoli dalla guerra, scopre che si prostituisce con i soldati americani. Da una battuta pronunciata in apertura di questo testo breve si sviluppa una polemica sprezzante contro la “letteratura Ohi Peppì”, ovverosia farcita di dialettismi. In Breve storia del contrabbando, dalla seconda raccolta, è descritta la calca puzzolente nei vagoni in certi viaggi ferroviari con i passeggeri costretti ai bisogni corporali. Una narrativa nella quale, per scomodare Marchesini, “sesso, cibo e morte si scambiano le parti di continuo”. Per i detrattori solo folclore neorealista, ma Franchini così smonta la falsa reputazione: “La sua vena di realismo era di ascendenza boccaccesca e poi, di secolo in secolo, passava per il prediletto Rabelais e arrivava fino al 600, abbeverandosi a sazietà alle pagine di Basile”.
Atteso alla prova del romanzo, nel 1959 appare Una vampata di rossore. Qui un’anziana levatrice, che con il suo lavoro mantiene la famiglia, si ammala di cancro. Il marito, abietto carabiniere in pensione, al capezzale della donna si accorge con vergogna di desiderare la sua guarigione solo per ricominciare a sfruttarla. Perché Rea ritorni alla ribalta – dopo trent’anni di sostanziale marginalità – bisognerà attendere gli anni 90 quando vincerà, staccando Bagheria di Dacia Maraini, il premio Strega del 1993 con il suo secondo romanzo, Ninfa plebea, uscito l’anno precedente. Gioacchino è un povero sarto di paese che rammenda le divise dei militari mentre sua moglie Nunziata lo tradisce accoppiandosi nel loro basso con una moltitudine di uomini. La figlia Miluzza, cresciuta nella perversione, finisce a fare l’amante di un ricco industriale. A salvarla dal discredito è la guerra. Sposa il soldato a cui ha offerto riparo e redime il suo passato licenzioso.
Il lungo black-out letterario (“Perché non sono di quei narratori che ogni giorno scrivono come buttano la pasta”) non interrompe la scrittura. Collabora con svariate testate giornalistiche, interpellato a dispensare commenti su San Gennaro e la pizza, sul colera e sull’arte di arrangiarsi. Si concede poche trasgressioni editoriali. Nel 1990 Crescendo napoletano, dove rievoca i Natali della sua infanzia. E cinque anni prima Il fondaco nudo. Proprio questa antologia di scritti del 1985 riapproda ora in libreria per Bompiani. Una radiografia delle metamorfosi di Napoli: dalle stagioni che “si sono come accavallate e confuse tra loro” al “vizio della libertà sessuale che a una certa ora della notte si respira nell’aria”. Un Novecento sospeso tra degrado e modernità che lo stesso autore ha fatalmente incarnato se è vero che è lo stesso Mimì che alla fine della guerra paga con dieci chili di maccheroni un passaggio in autotreno per raggiungere Milano e che negli anni 80 del potere socialista è un dandy che posa in uno scatto accanto a Sophia Loren.
Rea ha potuto rappresentare la miseria e la superstizione che animano la plebe napoletana perché il suo sguardo non è mai stato quello del borghese in vena di espiazioni. Ruggero Guarini nel Meridiano consacrato nel 2005 all’autore di Ninfa plebea ha scritto che nessuno come lui ha saputo raccontare, con duro realismo e tenero riguardo, cosa significhi crescere “in quella specie di pozzo nero sociale, ai margini del vivere civile, che può essere a volte l’esistenza in certi fetidi abituri del nostro Sud”.