il Giornale, 17 febbraio 2024
Estreatto de I giovani del Po di Italo Calvino
Pubblichiamo una pagina de I giovani del Po di Italo Calvino, tratta dal numero 8 della rivista Officina (gennaio 1957). È l’incipit del libro: Nino, immigrato a Torino, ha trovato lavoro in una fabbrica e inizia a conoscere la città, soprattutto il fiume Po.
Allora, usciti appena fuori di città, incominciò a capire cos’è un fiume. Anzi, già quando aveva preso con Dario la barca alla calata, aveva visto l’acqua verde e oro per il sole che ci batteva sopra, e l’aveva riconosciuto come acqua e il viavai che c’era per il fiume, di tipi in barca, molti già in costume, e ragazze in prendisole che strillavano e le sei remi dei canottieri «hop hop», che arrivavano con quella vogata che sfiora appena l’acqua, gli richiamava alla mente Il mare all’epoca dei bagni, ma là era uno sguazzare sparpagliato, mentre qui è tutto un suo giù per la corrente.
Remavano e il fiume girava lungo un parco di salici piangenti e ippocastani, con dei verdi nebbiosi e certe tinte color rame che pareva autunno. Passarono due ponti, (ogni volta a Nino veniva voglia di cantare per sentire l’eco), l’ospedale coi malati sui terrazzi, una piscina, con la gente fitta che non ci si rigirava, e intanto seri già fuori della città, tra basse rive di fango e di cespugli.
Era una delle prime domeniche d’estate e la gente s’affollava sulle rive, bande di giovanotti slip come in riviera, che si davano spinte e facevano i fieri, ragazzotte rosa con certi costumini che sembravano biancheria e quando si bagnavano, si vedeva tutto in trasparenza, comitive di matrone che arrivavano e dai: tutte in reggipetto, vecchietti con cappelli di giornale che s’arrotolavano, la merenda, no, che s’arrotolavano pantaloni e mutande e restavano seduti con gli stinchi al sole, famigliole con la merenda, che riempivano la riva di cartaccia, e sciami di bambini, sempre in acqua che facevano bacchiano come passeri
Ma il teatro, per Nino, non era la riva soltanto; era anche il fiume, con tutto quello che passava; le barche a palo, una cosa che al mare si usava poco, venivano su rasentando la riva, con l’uomo in piedi che arrancava a colpi lenti e magari sdraiata a bordo, una biondina; certe barche di gente vestita, con due che remavano, uno a prua che suonava l’armonica e due ragazze a poppa che non sapevano cosa dire e canticchiavano; i soldati che noleggiavano una barca e a momenti la sfondavano con gli scarponi e poi non sapevano remare e continuavano a farla girare su se stessa.
E c’erano anche là, abbronzati come negri, quei tipi di fanatici Pigri, padroni d’un canotto, che stanno sull’acqua mattina e sera fin da maggio, e vanno su e giù pagaiando tranquilli, contenti loro che hanno soldi per stare in ozio e nessun desiderio in più. Così il fiume dei ricchi passava in mezzo a quello dei poveri senza distinzione. Un tratto si sentiva: hop! hop! e arrivava il Club Armida, signori grassi e calvi in brachette e maglia bianca e blu che ci davano dentro alla Veneziana come fossero in regata. E poi un rombo, un’onda di traverso e passava una motobarca piena di pretese, perdendo nafta per tutta la scia.
«Di che razza di baracche mettono a bagno, qui da voi?». Disse Nino a Dario. «Chi l’insegna a tenere un motore a questi tipi?». Era una delle prime frasi che scambiavano.
A Nino, invece, piacevano i barconi che rimorchiavano i carichi di sabbia e scendevano lenti, con a bordo spalatori barbuti che in quel caldo stavano tutti vestiti, nei loro abiti cenciosi, rattoppati con tela di sacco, e col
Pubblichiamo una pagina de I giovani del Po di Italo Calvino, tratta dal numero 8 della rivista Officina (gennaio 1957). È l’incipit del libro: Nino, immigrato a Torino, ha trovato lavoro in una fabbrica e inizia a conoscere la città, soprattutto il fiume Po.
capello in testa. Perché su fiume lavoravano anche; su una riva di sabbia e salici incontrarono una draga mezza in rovina, nera, con la scala dei secchi in fila fermi da chi sa quanto tempo. Nino si fermò a studiarla, e Dario diceva: «Ci diventi scemo? Cosa hai visto?».
Scesero e tirarono la barca in secco. La riva è d’un fango alto e molle, in cui s’affonda fino al ginocchio, basta premere. Di fare il bagno non veniva voglia, l’acqua anche dove è più pulita ha velo di grumi di schiuma che galleggiano. Dario spiegava che passa per tanti paesi prima di arrivare lì e raccoglie chissà cosa. Nino pensava ai paesi sul fiume pieni di collegi, e gli sembrava che a galleggiare per la corrente fosse una saliva spessa e appiccicosa. Ma ormai quell’acqua e quella rive gli erano venute in simpatia e ogni traccia nuova che trovava, ogni complicità tra il Po e la gente, lo metteva più in confidenza con il fiume e con la città di cui ora gli pareva di scoprire come il volto nascosto, il rovescio.
Per togliersi ogni schifo disse a Dario: «Faccio un po’ vedere lo stile a questi giovani, – e si tuffò, e nuotò fino all’altra riva. L’acqua era fredda e d’un dolce cattivo e limaccioso. La corrente tirava senza farsi accorgere, ma lo spostò di metri. Uscì, e sull’altra riva, c’era una banda di ragazzi sui compagni di lavoro, sdraiati sulla sabbia, con un’aria annoiata e senza donne. C’era in mezzo quel Bodrero, che sembra sia sempre lì per fare un grande discorso. L’avevano visto nuotare e «Neh che non va male il Torre» dicevano. «Già che lui vien dal mare,» lo canzonano.
Nino avrebbe voluto spiegare quel che andava scoprendo: che il fiume è tutto il contrario del mare, che è il senso del mare è nell’essere deserto e smisurato: per poco uno s’inoltri non distingue più la gente arriva, va e va e non vede più neanche la terra, e il mare, il mare vero comincia solo allora; il fiume senza nessuno invece è squallido, via per con il principio di pianura; il fiume ha un senso per quel tanto che c’è gente che gli va addosso, che si fa portare da lui, gli fa festa, gli lavora intorno, lo intorbida, lo guasta.
Ma certo erano idee confuse, e con quelli che conosceva da poco, Nino non riusciva a esprimersi. «Paese che vai, mare che trovi» si limitò a dire, indicando il viavai là intorno.
Il Bodrero non batté ciglio, s’alzò e disse: «Desiderio di evasione piccolo borghese» e camminò verso i salici.
Gli altri dietro, perché lui era un po’ un capo. Nino non aveva capito bene cos’intendesse, ma quel modo di troncare le discussioni non gli andava. Ferma Ernesto e gli fa: «Ma con chi l’ha quello?».
Ernesto era della combriccola, ma Nino pareva un tipo a posto. Ride e dice: «Ha che si sente piccolo borghese lui, alle volte».