Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 17 Sabato calendario

Intervista Kashmir Hill


Kashmir Hill è una giornalista americana dal curriculum impeccabile (Washington Post, New Yorker, New York Times...) che da anni si occupa di tecnologia. Tempo fa, mentre era incinta, si è imbattuta in una app che è in grado di riconoscere il nostro volto, abbinarlo ai nostri dati e, in pochi istanti, a partire da una semplice foto rivelare a chiunque chi siamo. Scoprire chi l’abbia inventata, come, con quali soldi e obiettivi le è costato molto tempo (e varie difficoltà): ne è nata un’indagine eccezionale, La tua faccia ci appartiene (Orville Press, pagg. 392, euro 26). Converrebbe a tutti leggerla, per farci un’idea del mondo in cui viviamo.
Kashmir Hill, a chi appartiene la nostra faccia?
«Nello specifico a Clearview AI, una compagnia che ha sviluppato una tecnologia di riconoscimento facciale e che al momento possiede quaranta miliardi di foto. Molte di più delle persone che esistono sul pianeta... E, più in generale, appartiene alle compagnie tecnologiche che raccolgono dati senza il nostro consenso».
Quando ha scoperto l’esistenza di questa app?
«Nel novembre del 2019, Clearview AI è apparsa nella richiesta di una registrazione avanzata da un dipartimento della Georgia. C’era una descrizione della app in una brochure, in cui veniva presentata come il google dei volti e c’era un avvocato molto famoso, Paul Clement, che assicurava che lo strumento potesse essere utilizzato senza infrangere le leggi federali: a quel punto mi sono chiesta se fosse davvero così e chi ci fosse dietro».
Chi c’era?
«Mi ci è voluto un po’ di tempo per scoprirlo, perché non volevano proprio farsi trovare; anche se, nel frattempo, raccoglievano informazioni su di me, nell’ombra...»
E alla fine?
«Sono arrivata a Ton-That: uno che era arrivato dall’Australia negli Stati Uniti a 19 anni, aveva fatto esperienza in vari ambiti tecnologici e creato una app sui capelli di Trump. Era possibile che, a partire da cose tanto semplici, avesse creato una tecnologia rivoluzionaria, in grado di sconvolgere il mondo?».
Era da solo?
«No. Gli affari erano tutti nelle mani di Richard Schwartz, un uomo legato al mondo dei media e della politica, che aveva lavorato per Rudolph Giuliani a New York negli anni Novanta: era lui a gestire gli aspetti finanziari».
Come è nata la app?
«Alla convention repubblicana di Cleveland, nel 2016. Lì Ton-That ha avuto l’idea: in un posto pieno di estranei, come prendi una decisione su di loro, come puoi stabilire chi sia amico e chi nemico? E, sempre in quell’occasione, ha incontrato Peter Thiel, un imprenditore molto ricco e di grande successo, che poi lo ha sostenuto».
Il cofondatore di PayPal?
«È stato il primo investitore della compagnia, che all’epoca si chiamava Smartcheckr.com: ci mise soltanto duecentomila dollari...».
Come funziona la app?
«Prende una foto di una persona e estrae una serie di informazioni dal suo volto, grazie a un algoritmo, che funziona come una impronta; poi, quando cerca quella impronta facciale nel database, fornisce un elenco di fotografie di persone corrispondenti a quella impronta, in ordine di accuratezza».
E quanto è accurata?
«I primi sistemi di riconoscimento facciale avevano molti problemi; ma oggi, nei test, la app risulta accurata al 99 per cento. Se l’immagine è di buona qualità, i risultati sono affidabili».
Che cos’è l’«impronta facciale»?
«Quando inquadra un volto, la app prende informazioni su ogni dettaglio: gli occhi, le misure, le lentiggini, le angolature. Funziona anche se ci si copre la bocca con la mascherina. E poi, se riesce ad abbinare la faccia a quella di un profilo esistente, di quella persona trova tutto: il nome, l’età, gli amici, la famiglia, le conoscenze...»
Con lei, però, la app non funzionava: come mai?
«Perché dall’azienda non volevano parlarmi. Ma alla fine sono apparse centinaia di foto mie, molte delle quali non sapevo neppure che fossero su internet: così ho capito

che, in questo mondo, non esiste più la privacy per come la conosciamo e che rendiamo pubbliche informazioni di noi stessi che non vorremmo fossero tali. Viviamo tutti come delle celebrità, le nostre facce sono famose e tutto ciò che ci riguarda è a disposizione: tutto il meglio e il peggio di noi stessi, tutto quello che abbiamo fatto è in giro...».
Vale per tutti?
«Tecnologicamente è possibile, tranne per coloro che non sono su internet. Non credo però che dobbiamo accettarlo, anzi: dobbiamo combattere per la nostra privacy nel regno della tecnologia».
Nel libro spiega che la polizia americana ricorre già a questa app.
«Credo che sia molto utile per risolvere i casi, specialmente di molestie e aggressioni, ma questo non significa che poi l’algoritmo debba tracciarci in ogni momento con qualsiasi telecamera a disposizione: in azienda appena varchiamo la porta, o al bar, o in un negozio, dove la persona accanto a te può scoprire in un momento chi sei e dove vivi... Tutto è troppo accessibile».
Come se ne evita la diffusione?
«Per ora, Clearview AI è limitata all’uso da parte della polizia, ma esistono altre compagnie: per esempio PimEyes.com che, per una sottoscrizione da 30 dollari, ti consente di ricercare il tuo volto fino a 25 volte al giorno. Sostiene di cercare solo l’immagine di chi sottoscrive, ma non ci sono misure tecnologiche che assicurino non sia usata su immagini altrui».
Ton-That ha messo la app a disposizione per riconoscere gli assalitori del Congresso.
«Credo sia stata una strategia: la app è stata usata per arrestare chi protestava ed è stata molto celebrata per questo. Ed era quello che lui voleva, che fosse associata a un utilizzo di quel tipo».
Quali rischi ci sono?
«Lo vediamo già in Cina, dove viene utilizzata dal governo per spedire gli oppositori in galera: dai ristoranti di Pechino alle piazze di Hong Kong, è lo strumento per attuare una sorveglianza di massa sulla popolazione. Anche se il governo sostiene serva a riconoscere i terroristi».
E nei Paesi democratici?
«Negli Stati Uniti è allarmante l’uso che ne viene fatto al Madison Square Garden: inizialmente era per sicurezza, ma ora impedisce di entrare a quegli avvocati di studi legali che abbiano fatto causa al Madison Square Garden per qualche motivo e che, quindi, siano visti come nemici. Insomma è utilizzata per schedare una certa categoria».
La legge lo permette?
«Sì. È vietato profilare in base all’etnia, al genere e alla disabilità, ma non c’è discriminazione in base alla professione. Da brivido».
Anche nelle mani di un malintenzionato...
«Certo. Nessuno è più estraneo per nessuno, con questa tecnologia. Chiunque può sapere tutto di te».
Quanto è pericolosa?
«Credo che ci sia un serio rischio che sia usata come mezzo di controllo sociale, da parte di governi e aziende. Ha aspetti positivi ma, se non la controlliamo, è terrificante».
Ed è possibile controllarla?
«Credo di sì, ma bisogna agire, limitando chi ha accesso a essa e stabilendo quali individui e con quali ruoli siano abilitati a usarla».
È la fine plateale degli «scopi nobili» sbandierati dalle Big tech?
«Credo che le grandi compagnie abbiano fatto un passo indietro in questo settore perché era troppo pericoloso. Ma si tratta di quelle stesse compagnie che mettono on line le nostre foto, che poi vengono usate dalle app per il riconoscimento facciale: dovrebbero fare di più per proteggerci».