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 2024  febbraio 17 Sabato calendario

La strategia dell’ insulto


Lo «stronza, lavori lei» col quale Vincenzo De Luca ha insultato ieri Giorgia Meloni (che lo invitava a sua volta a lavorare invece di manifestare a Roma) resterà nell’archivio della cronaca politica repubblicana come il punto più basso (per ora) toccato dal confronto pubblico tra le parti. Alle volgarità nel dibattito tra i partiti, infatti, eravamo già abituati, ma in questo caso – oltre che diverso – lo scontro è più grave, coinvolgendo due figure istituzionali in carica: la Presidente del consiglio e il Presidente della più grande regione del sud del Paese.
L’offesa rivolta alla premier è ingiustificabile, ed è un inedito così grave da far sperare in un ripensamento – magari con delle scuse – da parte dello stesso governatore campano. Ma la questione, in tutta evidenza, è solo riproposta e amplificata dallo scontro di ieri. E la questione, ormai da anni, è tutta in una domanda: come si è potuti precipitare così in basso? Come si è passati dalle incomprensibili ma gentili “convergenze parallele” a questi insulti da trivio? Il percorso sembrerebbe lunghissimo, e forse lo è: ma l’accelerazione, negli ultimi anni, è spaventosa ed evidente.
Senza star qui a fare elenchi di insulti – che metterebbero in parte tristezza e in parte apprensione – potremmo datare al “celodurismo” di Umberto Bossi l’avvio di questa new age del dibattito politico: la Seconda Repubblica nasceva e il leader leghista ci metteva il suo timbro, evocando – con argomenti del tutto nuovi – secessioni e baionette. Fu un passo, il primo. Ma è vero che oggi appare poca roba rispetto alle semplificazioni e al linguaggio violento poi introdotto – a furor di popolo – da una allora inedita e oggi frantumata trimurti: Grillo-Di Maio-Di Battista: fu il tempo delle liste di prescrizione, degli insulti personali e delle ironie perfino sui presunti difetti fisici di questo o quell’avversario politico.
Non ci si è più fermati. È accaduto per tante ragioni che qui sarebbe lungo elencare. Ma una ha come fatto da propellente per tutte le altre: alla gente (cittadini? elettori?) questo nuovo “stile” è sembrato piacere. Così, la semplificazione è diventata la regola: e il turpiloquio anche, essendo anch’esso null’altro che una semplificazione. La chiusura del cerchio – per sintetizzare – è poi avvenuta col trionfo (non solo in Italia) del populismo. Di che si tratta, in fondo? Di dar sempre ragione al “popolo”. Di seguirne istinti e richieste, come se il popolo avesse sempre ragione...
Un cerchio che si chiude, dunque. E che però può causare cortocircuiti: se in politica il popolo ha sempre ragione, infatti, Vincenzo De Luca dovrebbe essere un modello per Giorgia Meloni. La premier che esalta il suo essere «stata eletta dal popolo» e dunque di governare in suo nome, dovrebbe ammirare il governatore della Campania che – prima da sindaco di Salerno e poi da Presidente della Regione – è scelto e riscelto dal popolo da almeno trent’anni a questa parte. Il popolo, a volte, può forse sbagliare? Anche l’invito «a lavorare» rivolto a De Luca lascia un po’ perplessi: sindaci ed assessori del sud che vengono a Roma per protestare contro l’autonomia e per lo sblocco di fondi europei sono in gita premio o stanno – a loro modo – lavorando?
La vicenda è grave e il comportamento di De Luca inaccettabile. Ma segnala a tutti due problemi. Il primo sono appunto i bassifondi in cui è finta la politica qui da noi. Il secondo è l’uso sconsiderato che si continua a fare del populismo e degli argomenti che lo nutrono. Quanto accaduto ieri, almeno una cosa dovrebbe insegnarla: andando avanti così, non ci saranno vincitori. Perché chi di populismo ferisce di populismo perisce... —