la Repubblica, 18 febbraio 2024
Intervista a Amos Gitai
Amos Gitai presenterà oggi il suo ultimo film alla Berlinale. In quest’intervista esclusiva per l’Italia il grande regista israeliano ci racconta perché Shikun è ispirato alRinoceronte di Ionesco, perché l’ha girato in una casa popolare nel mezzo del deserto prima del massacro di Hamas del 7 ottobre e perché, dopo tutto, non si è pentito di averlo fatto uscire ora, dopo i tragici avvenimenti.
Il titolo, “Shikun”, significa “case popolari” in ebraico; la metafora dell’edificio ricorda uno dei suoi film precedenti, “Bait”. Ancora una volta, lei sembra affrontare i temi dell’esilio e dell’appartenenza attraverso la metafora della casa.
«Ho scelto tra due opzioni, e la seconda era It’s not over yet (Non è ancora finita, ndr), basata sulla canzone che si sente nel film. I miei amici di Tel Aviv preferiscono quest’ultimo, che sarà anche il titolo del film in Israele, ma io preferisco Shikun,che in ebraico significa appunto “case popolari”. La parola deriva da un verbo che significa “riparare”, “dare rifugio”. E il film dà rifugio a persone che, per motivi diversi, hanno bisogno di ripararsi dalla minaccia dei rinoceronti. Mi piace il suono della parola, so che la maggior parte delle persone non saprà cosa significa, ma questo non mi dà fastidio, anzi».
Nel film, ispirato a una celebre pièce di Ionesco, “Il Rinoceronte”, gli attori si muovono in un ballatoio angusto che però da un lato è aperto sul mondo. Il contrasto tra uno spazio ristretto e una pluralità di culture che si muovono in quel ballatoio sembra suggerire che Israele sia un’utopia realizzata. O che potrebbe esserlo.
«Ispirato appunto a Ionesco, il film racconta l’emergere dell’intolleranza e del pensiero totalitario attraverso una serie di episodi quotidiani che si svolgono in Israele in un unico edificio, lo Shikun. In questo gruppo di persone di origini e lingue diverse, alcuni si trasformano in rinoceronti, e altri resistono. Una metafora ironica della vita nelle nostre società contemporanee.
Lo Shikun in cui ho girato il film èun esempio famoso di edilizia popolare: si dice sia il più lungo del Medio Oriente, misura oltre 250 metri. Si trova nella città di Beer-Sheva, al centro del deserto del Negev. L’edificio stesso è un gesto architettonico potente,nello spirito di Le Corbusier, una sorta di coup de force,un manifesto nel mezzo del deserto.
Nei miei film esploro spesso un microcosmo con l’ambizione che rifletta una verità più generale».
Lei ha realizzato nel 1999 uno dei primi film sull’opposto di questa complessità: “Kadosh” è uno sguardo piuttosto forte su un matrimonio ultraortodosso.
E i protagonisti sono schiacciati dal rigore religioso.
«Vengo da una famiglia che da parte di mia madre è arrivata molto presto, nel 1905, a costruire Israele come uno Stato moderno, non religioso. Anzi, antireligioso.
Erano socialisti. I miei nonni materni erano in fuga dalla Russia, a causa dei pogrom.
All’epoca quella fondazione era un gesto laico e moderno. Il senso era quello di trovare una casa dopo centinaia di anni di pogrom e persecuzioni. Il mio lavoro è spesso ispirato da due cose: o sono molto commosso o sono turbato. A quel tempo ero molto turbato dalle grandi manifestazioni di ortodossi che dicevano che Israele doveva essere governato dalle leggi della Torah. Così mi sono detto che avrei fatto un film che mostrasse cosa significa vivere sotto le severe leggi della Torah più ortodossa. E cosa significhi essere considerata inferiore, per una donna. Nelle preghiere mattutinedegli ultraortodossi si dice “grazie a Dio che non mi hai fatto donna”.
Grazie a Dio sono figlio di una madre femminista».
C’è una sequenza impressionante in cui Irène Jacob si strappa lentamente i vestiti: non vuole diventare un “rinoceronte”. Ionesco disse che la sua opera che «è contro l’isteria collettiva e le epidemie che si nascondono dietro la ragione e le idee». È un’opera contro il totalitarismo.
«Nel mese precedente alla guerra del 7 ottobre Israele era in fermento. Eravamo nel mezzo di un enorme movimento di protesta contro il tentativo di Netanyahu e del suo governo di estrema destra di riformare il sistema giuridico. Le enormi manifestazioni includevano femministe, soldati, accademici, economisti, attivisti per una coesistenza pacifica tra palestinesi e israeliani e un’ampia parte della società civile: tutti contro la distruzione dello statodi diritto. Questo movimento è stato anche una reazione all’ascesa di una forma di conformismo e alla scomparsa dello spirito critico, nella società israeliana. È in questo contesto che ho riletto la pièce Il Rinoceronte di Ionesco».
Ho letto che lei si è posto il problema, dopo il massacro del 7 ottobre, se il film fosse ancora attuale. Ma una riflessione sui pericoli della radicalizzazione sembra ancora più bruciante, dopo 4 mesi di guerra. E in vista di un anno elettorale molto pesante in Europa, dove i partiti di destra stanno crescendo o sono già al governo, come in Italia.
«Dopo il 7 ottobre e quello che ne è seguito, ho esitato, mi sono chiesto cosa fare, ho pensato di non far uscire il film, o di modificarlo. Alla fine ho deciso di mostrarlo esattamente com’è. La realtà è il risultato di forze eterogenee, di casualità e di interferenze illogiche. E in mezzo a tutto questo, c’è una forza attiva: la paura. La paura non è un dato di fatto, è costruita, è fabbricata, e leader come Trump, Netanyahu, Orbán, Putin, ecc. sono ingegneri della paura, e ovviamente anche Hamas».
Lei ha vissuto un trauma terribile durante la guerra del Kippur e da allora è un pacifista convinto. Cosa prova ora che Israele e Ucraina sono in guerra.
«È triste che animali intelligenti come gli esseri umani debbano ripetere ancora e ancora queste orribili esperienze, che Hamas massacri, decapiti, bruci viva la gente, che Israele bombardi i civili a Gaza. Credono troppo nell’importanza della forza.
Israele è un Paese molto schizofrenico, un Paese polarizzato. Sto leggendo un libro su un dialogo tra Einstein e Freud. Nel 1931 fu chiesto a Einstein di scegliere un intellettuale e di porgli una domanda. E scelse Freud: “Perché la guerra?”, gli chiese. Ho intenzione di fare uno spettacolo su questo argomento.
Sto anche lavorando su Dona Gracia, la donna che già nel XVI secolo pensava a un posto per il popolo ebraico. E sto preparandoHouse, un progetto con attori e musicisti israeliani e palestinesi, che porterò anche al Romaeuropa Festival. Houseracconta la storia di una casa diGerusalemme Ovest durante un quarto di secolo attraverso le storie dei suoi abitanti, arabi ed ebrei, palestinesi e israeliani».
È ancora possibile una pace in Israele?
«Nel 1994, durante un viaggio, chiesi a Yitzak Rabin di Gaza. Mi rispose: “Sono contrario al ritiro unilaterale di Israele. Se cene andiamo, 26.000 funzionari palestinesi non riceveranno lo stipendio.
Voglio che abbiano acqua, elettricità, ossigeno in ospedale”. La pace non è unilaterale. Quello che dovremmo imparare dall’esperienza dei tedeschi che hanno compiuto il genocidio contro gli ebrei e il massacro di milioni di persone nella Seconda guerra mondiale è ciò che è accaduto dopo la Prima guerra mondiale. I tedeschi furono umiliati e schiacciati con il Trattato di Versailles che distrusse la loro economia. E ciò che abbiamo ottenuto è stato Hitler. Dopo la Seconda guerra mondiale la conclusione è stata opposta: la Germania è caduta e gli Alleati hanno contribuito a ricostruirla.
Ora in Israele il tempo delle uccisioni è stato già abbastanza lungo. Ora dobbiamo trovare una soluzione per vivere in pace con i palestinesi».