la Repubblica, 17 febbraio 2024
Intervista a Enzo Cheli
«Mi è piaciuto tanto il libro di Giuliano Amato, Bentornato Stato, ma :quello uscito un paio di anni fa.
Ne condivido le tesi di fondo: è tempo che il nostro Stato torni a farsi sentire e a investire dove è necessario. Penso anche al settore dell’editoria giornalistica, che mi è caro».
Enzo Cheli, giurista di fama, primo presidente dell’AgCom ed ex giudice della Corte costituzionale. In verità la legge sull’editoria – la 461 del 1981 che lei stesso contribuì a scrivere – è ancora in piedi.
«Gli stanziamenti pubblici però si stanno prosciugando. E le risorse vengono decise anno per anno con la legge di Bilancio di turno oppure da qualche emendamento al decreto Milleproroghe. Questo è sbagliato: bisogna aumentare gli importi della legge e soprattutto fissarli subito per molti anni».
In questo modo, in effetti, l’editoria giornalistica avrebbe certezze maggiori. Potrebbe programmare il suo futuro.
«Gli editori, ma anche le singole giornaliste e i giornalisti, non possono più camminare sulle sabbie mobili di questa palude.
Sono loro gli interpreti di un diritto costituzionale decisivo: quello a informare producendo contenuti corretti, verificati, di qualità. Sono preoccupato, peraltro, perché adesso le paludi nascondono mostri dalle dimensioni innaturali».
Lei si riferisce, credo, ai giganti di Internet: da Facebook a OpenAI, madre di ChatGPT.
«Il valore di Borsa di queste aziende si conta in trilioni di dollari. Dunque, in alcuni casi, la lorocapitalizzazione è superiore al Pil che una potenza industriale come l’Italia, la Francia o il Canada riesce a creare».
Hanno un potere enorme.
«Controllano dall’intelligenza artificiale generativa ai satelliti, dai nostri dati personali alle autostrade digitali indispensabili alla diffusione delle idee. È il momento di chiederci, dunque, se il mondo debba essere governato da loro o dalla nostre democrazie.
Democrazie che sono vive soltanto se protette anche dalla informazione professionale; e solo quando preservano mediatori accreditati come le croniste e i cronisti».
In Italia, gli editori della tv, della radio, della carta stampata non riescono a farsi pagare un equo compenso per i contenuti giornalistici che i social veicolano, infarcendoli di pubblicità.
«Non è bastata una direttiva europea sul copyright che pure ha fissato chiaramente questo diritto.
Non sono bastati un decreto legislativo italiano di recepimento della direttiva europea e unregolamento dell’AgCom. Tutto è ancora fermo perché il Tar del Lazio ha sospeso l’applicazione della direttiva sul copyright accogliendo il ricorso di Facebook-Meta. Questo passaggio ci fa capire quanto l’editoria giornalistica sia isolata, e quanto i cronisti si ritrovino accerchiati».
Lei teme addirittura l’estinzione del giornalismo tradizionale?
«Noto, con sgomento, che la civiltàgiuridica occidentale non ha mai tollerato una simile concentrazione di tecnologie, contenuti editoriali, pubblicità e denaro in capo a un piccolo gruppo di imprese private, peraltro intolleranti al controllo pubblico».
Le tv anche italiane, le radio, i giornali hanno dei limiti invalicabili quando propongono pubblicità.
«Facebook e le altre piattaforme, nessuno. Perché mai, mi chiedo?».
Quando lei contribuì a scrivere la legge sull’editoria, un grande fermento percorreva la società italiana, che reclamava un’informazione più libera e coraggiosa.
«Mi piacerebbe si ritornasse a quel clima. Nel 1975 era arrivata la legge di riforma della Rai. Nel 1981 riuscimmo a portare a casa la legge sull’editoria con l’umile contributo mio, di Giuliano Amato e Paolo Barile. Le università di Roma e Firenze diventarono i motori di un dibattito nazionale; ci furono decine di convegni in tutto il Paese.
Sarebbe bello se il mondo accademico, di fronte alle emergenze del presente, imponesse il tema della libertà di informare, come fece allora».
Ma se oggi dovesse scrivere una nuova legge dell’editoria, che cosa ci metterebbe dentro?
«Sono tutt’altro che un nostalgico, lei lo sa, e guardo sempre avanti.
Partirei, però, da quanto di buono resiste nella vecchia. Gli editori vanno sostenuti e accompagnati sul cammino dell’innovazione.
Innovazione che li ha già portati nell’ambiente digitale con prodotti pregevoli, ma costosi da confezionare: articoli, video inchieste, podcast».
E poi?
«Quella legge del 1981 rendeva e rende i cronisti indipendenti dallaloro proprietà, liberi nel pensiero e nelle azioni. E rendeva trasparenti queste proprietà private: davamo forma compiuta all’articolo 21 della Costituzione, insomma. Tutto questo deve valere ancora».
E torniamo alle risorse in campo.
«Non bisogna certo regalare del denaro agli editori. Non invoco certo politiche assistenzialistiche.
Precisato questo, è necessario aiutare gli editori e i giornalisti più innovativi. Quelli veramente disponibili al cambiamento nella direzione del digitale».
Insomma: lo slogan può essere davvero “Bentornato Stato, ma”, se Giuliano Amato ce lo presta.
«Esatto».